Il mio amico Giovanni

09:53 / Pubblicato da Alessandro / commenti (6)

"Oh Madonna, tu sei la sicurezza della nostra speranza!".

Questa è la frase più importante per tutta la storia della Chiesa; in essa si esaurisce tutto il cristianesimo.

"Tu sei la sicurezza della nostra speranza" indica il fiorire delle cose.

Senza la Madonna noi non potremmo essere sicuri del futuro, perché la sicurezza del futuro ci viene da Cristo: il Mistero di Dio che si fa uomo.

Non sarebbe potuto accadere questo, non si sarebbe potuto neanche ridire, se non avessimo avuto la Madonna.

Attraverso di Lei il dono dello Spirito si è comunicato all'uomo; nel seno di Maria è cominciata l'ultima storia dell'umanità.

E' un miracolo, l'inizio della fine del mondo. (L.Giussani) Oggi è entrato in ospedale il mio amico Giovanni. Domani sarà operato per l'ennesima volta. Vi chiedo di pregare per lui e che Maria accresca la nostra Speranza.

Vite per la vita

20:17 / Pubblicato da Alessandro / commenti (0)

Ci sono vite per la Vita. La assistono, la sostengono, passo dopo passo, respiro dopo respiro, dall’inizio alla fine. Il volontario che trascorre le sue ore accanto ai malati di Alzheimer, o con i disabili; lo studente che passa qualche ora, ogni giorno, con un anziano costretto a letto; il personale medico e sanitario che non perde la speranza, che sorride nonostante tutto, che stringe forte le mani, accarezza i volti. E poi, a Genova, nel cuore dimenticato del vecchio quartiere di periferia Paverano, tra le mura del Piccolo Cottolengo Don Orione, ci sono Anna e Concettina. Vite segnate dal dolore, dalla deformità, dal rifiuto delle famiglie: Concettina abbandonata su un treno a cinque anni, per "salvarla" dalla cattiveria di un paesino nella provincia dell’Aquila dove il nanismo era mostruosità inconcepibile. Anna portata al Cottolengo a otto anni da una maestra, perché la poliomelite la costringeva a camminare su mani e piedi («a quattro zampe come un gattino», dice lei), nel 1941 le stampelle erano un lusso a lei non concesso e a scuola quell’alunna proprio non sapevano dove metterla. Anna e Concettina sono donne che alla vita degli altri, nonostante la propria malattia, hanno dato tutto. E che dei malati, dei sofferenti, dei bisognosi, hanno fatto la propria "ragione". Anna lo spiega senza pensarci un attimo: «Ero come loro, che cosa avrei dovuto fare?». Per lei ènaturale, da sessant’otto anni, occuparsi di aiutare chi al Cottolengo è meno fortunato: classe 1933,una sedia a rotelle agile come una Ferrari, si infila nei corridoi alla velocità della luce col nome di ciascuno sulla bocca, senza dimenticarne uno, senza increspare mai il sorriso. La mattina presto aiuta nel giro delle colazioni, poi in lavanderia a stirare e piegare i panni, poi di nuovo in corsia,armata di cucchiaio, per imboccare chi non riesce a mangiare da solo. Sono tanti così, al PiccoloCottolengo: molti in stato vegetativo, molti affetti da Parkinson o Alzheimer avanzati. Anna non sa nemmeno che differenza ci sia: «Sono persone, hanno appetito, devono rimanere in salute», e via lungo i corridoi, più veloce delle infermiere. Vien quasi da pensare che abbia visto il mondo, che abbia studiato chissà quanti manuali di pedagogia e assistenza sanitaria, Anna. Invece da sessant’otto anni il Piccolo Cottolengo è la sua casa, il suo universo. È uscita solo due volte, per trascorrere dei periodi in altre strutture che avevano bisogno di braccia e di sorrisi. Poi è rientrata senza mai chiedere di andare al cinema, o a comprare un maglione. «La Vita chiamava più forte –spiega, mentre gli occhi le brillano –. La Vita, io la chiamo così, non mi ha mai dato il tempo per pensare a me, a queste gambe, a questo corpo. Mi ha sempre ripetuto che c’è un dolore più grande, una croce più pesante da portare».La Vita, per Anna, sono soprattutto i suoi "angeli custodi". Al Piccolo Cottolengo di Genova è il nome di un reparto speciale: il lungo corridoio giallo, nuovo di zecca, ospita le "bambine". Sono le pazienti arrivate lì da piccole, in alcuni casi in fasce. Per loro niente da fare: malattie gravissime,spesso prive di una precisa diagnosi, sguardi assenti, movimenti sconnessi, rantoli. Alcune, bambine non sono più: rimangono lì per quella inguaribile tortura che le fa sembrare fisicamente sempre piccole, che le logora da decenni. È il caso di Marilena, codine alla Pocahontas e pigiama rosa:Anna l’ha presa in braccio, la prima volta, che aveva 17 mesi. Oggi ha cinquantun’anni. «Per me è come una figlia: le ho visto crescere i capelli, riempirsi le guance. Ho imparato il significato di ogni sua occhiata: quando vuole essere spostata, quando è malinconica, quando è felice». Marilena non parla, a guardarla un minuto sembra non esserci. Serve più tempo, per conoscerla. Serve la lezione di Anna per capirla.
Dall’altro capo del Cottolengo, da qualche anno relegata a letto, c’è Concettina. Anche lei, come Anna, per cinquant’anni e più si è messa al servizio degli altri: senza mai scoraggiarsi, anche quando la fatica per sollevare un paziente, e spostarlo, era troppo grande per lei, così piccola. «Sono nana – spiega –, ma questa è stata una benedizione, non un peso. Mi ha aiutato, qui, perché con le mie manine ero un fulmine a rammendare le lenzuola, e a pelare le patate. Nessuno come me». Anche quando i dolori, e la vecchiaia, hanno spezzato il suo corpo, Concettina non si è tirata indietro: ha scelto di essere messa in camera con Dodi e Teresa, le sue "perle". Dodi ha la Corea di Hungtinton, una malattia degenerativa ereditaria che colpisce il sistema nervoso: l’ha sorpresa a 28 anni, improvvisamente, e l’ha annientata. È assente, agitata, le mani coperte da fodere di feltro per evitare che durante le sue crisi si faccia del male. Teresa, invece, è arrivata al Piccolo Cottolengo nel dicembre del 2000, segnata dagli esiti di una gravissima emorragia cerebrale, con tetraparesi spastica, epilessia, afasia, degrado cognitivo. Non dice niente, non c’è. Eppure, quando Concettina la chiama dal suo letto, e le chiede di sorridere, gli occhi si riempiono di luce, di lacrime, e con tutto lo sforzo del mondo Teresa muove la testa, pian piano, nella sua direzione. «Sono gli esercizi quotidiani – dice Concettina –, se non ci fossi io, chi glieli farebbe fare?». Dodi è qualche centimetro più in là nella stessa stanza, ma la Tina sa raggiungere anche lei con la voce, con le ammonizioni, con i complimenti. Non le lascia mai sole, in quell’abisso di dolore e solitudine. E le guarda come perle davvero, gioielli donati per chissà quale misterioso incantesimo, a lei, che non ha mai ricevuto regali. Così Concettina aiuta la Vita da un letto d’ospedale, inferma. Senza stancarsi, senza sbuffare. All’ingresso del Piccolo Cottolengo, i volti di Anna e Concettina compaiono già tra i ritratti dei benefattori. Accanto ai cammei in bianco e nero, a nobili e medici e infermieri morti anni or sono, ci sono anche loro. «Si può dire che Anna e Concettina “siano” questo centro, e viceversa – spiega don Germano Corona, direttore del Paverano –: così abbiamo voluto scrivere accanto alle loro foto. Potevano starsene sedute lì, a guardare la Vita scorrere davanti a loro, come tanti ospiti qui. Invece, Anna e Concettina hanno lasciato che le attraversasse. E hanno compiuto i loro piccoli, grandi miracoli».
Viviana Daloiso (da “Avvenire”)

Quella Presenza che irrompe, anche dietro le sbarre

17:40 / Pubblicato da Alessandro / commenti (0)

Quella Presenza che irrompe, anche dietro le sbarre... di Benedetta Frigerio da: "Tracce.it"

23/03/2009 - Un gruppo di milanesi, padovani e napoletani fa visita ai detenuti del carcere di Padova. Tra canti popolari e momenti di festa, ecco come continua l'amicizia nata quella sera, al Meeting... È un sabato di primavera ma il cielo è quello grigio dell’autunno e dei muri della Casa di reclusione di Via Due Palazzi a Padova. Ci sta davanti massiccia e opprimente. Aspettiamo fuori dai cancelli insieme alle famiglie dei detenuti, mamme, papà e bambini che stringono a loro sacchetti stracolmi da portare oltre le sbarre. «Il sabato è giorno di visite», è la voce di Nicola Boscoletto che ci viene incontro e ci porta al di là della “soglia”. Siamo un’ottantina tra milanesi, padovani e napoletani, in visita dopo l’amicizia nata con i> carcerati venuti al Meeting di Rimini 2008. Prima di entrare, però, dobbiamo consegnare i nostri effetti personali e in cambio riceviamo un tesserino da mettere al collo, su cui, al posto del nome, appare una cifra. Sono il visitatore 848. Convertiti in numeri, siamo davvero pronti per entrare. Ad accompagnarci sarà sempre Nicola. È lui che quindici anni fa, insieme ad alcuni amici, ha iniziato a lavorare per il carcere, fondando poi la Cooperativa Giotto di cui è presidente e che oggi si occupa dell’inserimento lavorativo di disabili e detenuti. «E pensare che poteva finire tutto in pochimesi», racconta. «Avevamo vinto una gara per la pulizia dell’area verde del carcere, potevamo fare il lavoretto e andar via, ma poi ci siamo detti: qui ci sono centinaia di persone che non fanno niente, ma perché non se lo fanno loro?». Dall’idea un’opera. Andiamo a vederla. La prima tappa è una stanza in cui al posto delle finestre c’è la gigantografia di una foto dalle facce sorridenti. Sotto, gli stessi> volti, che dal vivo appaiono più gravi, i più belli segnati dal dolore. Sono quelli di alcuni carcerati. «Qui dentro - ci spiegano -, lavoriamo per il call center del servizio sanitario della città». In poche parole, ricevono le richieste per prenotare le visite nei diversi ospedali padovani da raccogliere e riordinare meticolosamente, «perché quella è gente che aspetta per mesi, che per venire si prende un giorno di ferie e magari gli costa pure un bel po’», chiosa Marino, «perciò non voglio sbagliare». «Non voglio sbagliare», detto qui dentro da uno condannato all’ergastolo suona pesantissimo. Un giudizio che non lascia scampo alla leggerezza con cui spesso si lavora, e una coscienza lucidissima del contributo che si può dare facendo il massimo anche nell’occupazione più semplice. Una scelta non scontata: «È stato difficile accettare il lavoro - ci raccontano - devi credere di poter rincominciare, fidandoti di chi ti da un’altra possibilità». «Il lavoro - interviene Marino -, è duro, anche perché ti mette davanti al fatto che la gente fuori ha problemi come te». È il turno di Alberto che ci parla del suo ergastolo, ma che, grazie a chi ha deciso di aiutarlo, è tornato a sperare. Proseguiamo, passando un corridoio grigio e un cancello rosso, un altro corridoio e un altro cancello, uguali ai primi, e così per un po’, finché arriviamo in un atrio sulle cui pareti ci sono altre gigantografie: sono le foto degli operai del carcere e noi siamo arrivati in “fabbrica”. Il primo reparto è quello dei gioielli Morellato: «Tutti i pezzi difettosi, la ditta li rimanda a noi persistemarli», racconta Nicola, interrotto dall’arrivo di un ragazzo di colore che corre incontro a don Eugenio Nembrini. Lo abbraccia come un amico di vecchia data, che si rincontra dopo tanto tempo. Non lo vede da sei mesi, da quando l’ha conosciuto al Meeting di Rimini. E con il volto contento, gli occhi commossi e la mano di Eugenio sulla spalla ci porta nel suo “ufficio” e ci mostra le sue creazioni: bracciali, ciondoli e orecchini ordinati in fila su un tavolo coperto con le immagini ritagliate dai giornali, che ritraggono le modelle che li indossano. Sopra il tavolo dei quadri “surrealisti” firmati da lui. Dopo averceli mostrati ci congeda: «Ci vediamo dopo, devo tornare al lavoro». Nella stanza a fianco c’è chi costruisce valigie: tra loro si fa largo un volto solare che sembra impaziente di parlarci. Nicola si accorge e gli chiede di raccontare di sé e della sua storia. «Sì, perché io non sorridevo mai. Prima di incontrarvi ero triste e voi mi avete cambiato la vita», e aggiunge: «Finalmente vi conosco». C’è da chiedersi come possa ringraziare gente che non hamai visto. Ed è sempre Nicola a spiegare quel che appare impossibile. «Lui è rinato quando i suoi compagni sono tornati dal Meeting e, raccontando la bellezza incontrata, l’hanno testimoniata agli altri». Viene in mente la frase con cui Franco, carcerato conosciuto a Rimini, ci lasciò prima di ripartire per Padova: «Non vedo l’ora di tornare in carcere per raccontare a tutti quello che ho visto». E vengono i brividi a vedere con i propri occhi che il cambiamento di uno può essere davvero per tutti. Sono già le 11 e 30 e siamo nelle cucine della prigione. «Questo è uno dei pochi carceri dove si mangia bene», mi dice un padovano prevenendo le mie domande. «Mentre quello è lo chef che gli amici del Caffé Pedrocchi hanno deciso di mandare qui a lavorare con i detenuti», mi racconta Caterina. Nel reparto pasticceria i ragazzi si presentano senza interrompere il lavoro. Quest’anno, infatti, non riescono a stare dietro agli ordini: le colombe e i panettoni che producono sono richiesti da tutta Italia. Uscendo per andare in auditorium passiamo da un cortile: si vedono le finestre delle celle dei detenuti che ci guardano con le mani e il > volto attaccati alle inferriate. «Loro là dentro ci stanno 24 ore al giorno», mi dice Franco. Si capisce di più che quanto visto finora è un’eccezione, che in un carcere ha del miracoloso. In auditorium siamo più di un centinaio, contando i carcerati che ci hanno raggiunto a scaglioni. Don Eugenio inizia la messa commuovendosi di «quanto Dio sia geniale», rivelerà durante la predica, «perché le letture sul perdono e il Vangelo sul fariseo e il pubblicano non li ho scelti io. Sono proprio quelli di oggi». «Amici - continua -, non c’è differenza tra me e voi, il frutto dei miei e vostri peccati è lo stesso: il desiderio di felicità riempito in modo sbagliato. Ma c’è un’altra cosa che ci accomuna: la risposta a un certo punto ci è venuta incontro, attraverso questa compagnia che ci testimonia l’amore e la misericordia di Cristo, l’unico che può bastarci». Ed è proprio così: in fila per la comunione è evidente che siamo una cosa sola, bisognosi davanti alla stessa Persona. Finita la messa si va al pranzo preparato dai detenuti. Purtroppo il tempo corre, dobbiamo tornare in auditorium, dove inizia la festa. Gli amici di Napoli hanno preparato un repertorio speciale. Dopo le prime canzoni ecco quella «scritta dagli amici carcerati», annuncia Salvatore che l’ha composta «dopo averli conosciuti». La prima fila è la più scalmanata. Ci sono Franco e alcuni detenuti napoletani che cantano e ballano senza mancare una strofa: Chi sarà che mi regala un sorriso… proprio a me che maledico il giorno in cui ho ucciso…fu così che iniziai a vivere… Ma sul finale anche i detenuti restano senza fiato. Un secondino coinvolto nel canto, guardando la platea, scoppia in un pianto commosso. E mentre don Eugenio ci ricorda «che gli uomini sono tutti uguali, con lo stesso cuore che desidera felicità», il secondino urla: «È vero, è proprio così!». «E anche chi di voi - chiude Nembrini - è ancora arrabbiato con sé e con la vita, non ha più scuse per lamentarsi. Davanti ai vostri occhi c’è chi vi testimonia che si può essere felici e liberi anche qui». È ora di andare. Si esce commossi di aver partecipato a qualcosa di straordinario, che non si può spiegare da sé: davvero Qualcuno ha voluto fare irruzione tra le sbarre.

"La mattina che mi dissero: tua figlia ha la leucemia" di Luigi Amicone

14:03 / Pubblicato da Alessandro / commenti (0)

È la tarda mattinata del 19 dicembre 2005, sono in redazione, squilla il telefono, è mia moglie Annalena. Mia figlia Lucilla era andata a sciare e la mattina del lunedì si era svegliata dolorante in tutte le ossa. «Sarà influenza». Però è pallida come un cencio. Era seguito il viaggio al pronto soccorso, poi il responso dei medici dell’ospedale pubblico San Gerardo di Monza. «Leucemia grave, signora, molto grave». E più tardi in corsia. «Signora non sappiamo se sopravvive alla prima chemio, forse...». Sono circa le sei del pomeriggio quando mi presento all’ospedale. Lucilla è seduta sul suo lettino, cameretta singola, pallida, avvolta nella sua camicia da notte come in un sudario di morte. Come va, Lalla? «Uno schifo, pa’». Lei che ti biascica altre cose e tu che non pensi ad altro che tua figlia è nelle mani di chissà cosa (scusate, permettetemi di averlo chiamato Dio, lì per lì). «Vedi papà... - e piange - vedi, non me ne frega niente della morte, è che proprio adesso doveva capitare! Proprio adesso che c’è Natale e noi dovevamo stare tutti insieme nella nostra bella famiglia (sì, disse così, Lucilla: “bella”, e io faccio ancora così fatica a crederci!), adesso che dovevo andare in vacanza con i miei amici di Gs! Ma perché Gesù mi fa questo! Non poteva aspettare almeno la fine delle vacanze!?». E poi, stringendo i denti e i pugni, «È un pirla!». Un pirla? Chi è un pirla Luci? «Gesùùùù!!!!!». Be’, dico io, adesso calma. Poi la guardo e so soltanto che le devo una risposta. Neanche un po’, dico. «Neanche un po’ cosa?». Dico che Gesù non è neanche un po’ pirla. «E allora perché mi fa questo? Ti sembra giusto che Gesù faccia queste cose?». Dentro di me dico: so forse qualcosa più di questa bambina, io? No, non so niente, non capisco un accidente, so soltanto che il nemico dice nel corpo di mia figlia: «Presente»! Stai davanti a questa realtà mi dico. Non scappare, non tirare in ballo Dio, né i santi, né la Madonna. Mi viene un primo pensiero mentre affondo lo sguardo dentro gli occhi umidi e il naso colante di mia figlia. Mi viene in mente la fitta che ha dentro mamma Annalena, il suo pianto al telefono, il suo dolore di madre. Senti Lalla, tu sai che io e mamma vorremmo essere al posto tuo, lo sai, vero? «Lo so». Però non possiamo essere al posto tuo. Perciò quello che ti sto dicendo è vero. Ma non è del tutto vero. «Cioè?». Cioè il fatto che io e tua madre vorremmo essere al posto tuo, non è una risposta. La realtà è diversa. Il posto è tuo, e nessuno te lo può togliere. Nessun bene del mondo, neanche quello di tuo padre e di tua madre. «Già, bella scoperta». Avanti, mi dico, rispondi, ti sta spaccando la faccia. E chissà come mi ripassa davanti agli occhi la scena di diciannove anni fa quando una sera Annalena torna a casa, il viso scuro, neanche mi saluta, corre in camera... un lamento soffocato. «Cosa c’è, Annalena?». «C’è che questa figlia morirà, ho la toxoplasmosi». E giù a piangere. Non so che fare se non abbracciarla, stringerla, sussurrarle «Annalena, questa figlia è un dono, la vita non è nostra, fidiamoci». Ecco - dico a Lucilla rivangando quella storia - quella figlia che non doveva nascere sei tu. Invece sei nata, ci sei. Ecco la verità intera: non a noi, ma a un Altro appartiene l’essere. Lucilla rimane silenziosa, poi dice niente, annuisce con la testa, dice il suo «sì, è così». È cambiato qualcosa della sua malattia? Niente. Ma come è cambiata lei, in quel nanosecondo che ha detto il suo «sì» all’evidente! Dalla disperazione più nera, alla determinazione ad andare in guerra. Dalla lamentazione sulle possibilità negate del Natale e della vacanza, al punto di fuga dell’adesione alla realtà così com’è. Da allora non se n’è parlato più, né del Natale perduto, né delle vacanze sfumate. Presenza, solo presenza al presente, combattendo come un leone, disfacendosi nel corpo e sette volte rinascendo più bella di prima, più bella fuori e dentro, anche se in certi momenti avrebbe voluto morire. Come in effetti sarebbe potuta morire, come quel ragazzino della stanza accanto. Ripensandoci, le situazioni più tragiche sono quelle più semplici. Perché si può, si deve, solo accettare. Perché dall’accettare viene l’imparare. Riflettendoci, non è che la nostra pietà e la nostra compassione e il nostro amore siano falsi. È che non completano mai niente, è che per quanto buoni e sensibili e amorevoli e compassionevoli e pietosi possiamo essere, non siamo capaci, direbbe Ibsen, di un solo atto completo di virtù in tutta la nostra vita. Ci vuol niente a insegnare a disperare. Ma insegnare a vivere, questa sì è un’impresa degna anche dell’ultimo malato terminale.

Magic

14:37 / Pubblicato da Paolo Vites / commenti (1)

“L’attrattiva di una bellezza segue una traiettoria paradossale: quanto più è bella, tanto più rimanda ad altro. L’arte – pensiamo alla musica – quanto più è grande tanto più apre, non conclude, spalanca il desiderio, è segno di altro” Luigi Giussani “Se uno scrittore vale qualcosa, ciò che crea avrà la propria fonte in un reame assai più vasto di quello che la sua mente cosciente può abbracciare, e sarà sempre una sorpresa maggiore per lui di quanto non potrà mai esserlo per il lettore” Flannery O' Connor Come scrittore valgo ben poco, però oggi, a diversi mesi dalla pubblicazione del mio piccolo libro, capisco le parole delle grande (lei sì) scrittrice americana. Mi sorprendo cioè che dalle cose scaturite dalla mia tastiera emerga qualcosa di più grande di me, qualcosa che è passato attraverso di me, qualcosa che non è mio, ma di un Altro. Il mio stesso libro sta diventando una scoperta misteriosa per me stesso. Quando mettevo giù l’ultimo capitolo, pensavo di aver capito tutto. Questo è il diario dei miei primi 46 anni, dove ho fatto e visto di tutto, adesso non mi rimane che stare tranquillo su quello che ho seminato fino ad oggi. Adesso mi accorgo che non è così, prima di tutto perché c’è poco da stare tranquilli. Ogni giorno la vita rimette in discussione ogni certezza, anche quelle che credi più sicure. Poi perché credevo di aver fatto abbastanza incontri in questi 46 anni, e invece da quando questo piccolo libro è in giro, gli incontri si moltiplicano senza sosta. E avvengono attraverso di me, non grazie a me. Gli incontri accadono per il libro e attorno al libro. Ne potrei raccontare a decine, come l’amico di La Spezia, conosciuto su Internet, venuto a Chiavari a cantare un paio di canzoni e che poi mi ha detto: “È stata una serata bellissima... ti ringrazio davvero di cuore: la cosa più toccante è stata che ero tra persone che incontravo tutte per la prima volta e mi sono sentito come se fossi da sempre parte di quella compagnia”. Non certo grazie a me, ma perché ha visto la bellezza di una compagnia, di un popolo, in atto. Oppure il gruppetto di studenti universitari che l’altra sera mi ha invitato a cena per aiutarli a capire come vivere con più chiarezza il nesso tra fede e passione per la musica. L’unica risposta che mi è venuta in mente è stata: “Leggete la scuola di comunità, capirete perché è bello ascoltare Bob Dylan o i Metallica”. Il giorno dopo uno di loro mi ha scritto: “Mi auguro che tu possa esserci da guida per cominciare a essere ‘inquietati’ quando sentiamo una voce particolare”. Certo, ricevere un messaggio di Francesco De Gregori che ti dice “il tuo libro è scritto benissimo, pieno d’amore per la musica vera. Sono orgoglioso di entrarci qualcosa e ti ringrazio” potrebbe commuovere anche il più incallito bastardo. E io, un incallito bastardo, lo sono. Perciò mi sono commosso. Ma mi commuovono di più questi due episodi. Questa ragazza, che per anni mi ha stressato dicendo che voleva fare la giornalista musicale. Non ci è riuscita, per un motivo o per l’altro. L’altro giorno ci siamo visti, mi ha fatto vedere la sua tesi di laurea che presenterà fra poco. L’ho aperta, e vicino all’intestazione, in apertura, c’era una frase presa dal mio libro. E questa cosa ci fa qui, le ho chiesto? L’ho messa perché in questi mesi mi sei stato amico e tra le cose che mi dicevi e quelle che scrivevi mi hai fatto capire la strada per il mio destino. E quest’altra, mai incontrata prima di persona, che dopo una presentazione mi ha detto: “Che bello lo slancio e la libertà con cui incontri le persone: quello che racconti è la possibilità di respirare a pieni polmoni. Di credere che ogni cosa che il Signore ci ha messo dentro e ogni cosa e persona che ci fa incontrare è veramente per noi”. Questa evidenza che si comunica non può accadere perché la facciamo accadere noi. Mi conosco troppo bene, non ne sarei mai capace. Non sono capace né di slancio né di libertà, ad esempio. Ma accade attraverso di noi, perché quello che abbiamo incontrato è talmente strabordante che è impossibile trattenerlo. Non c’è altra spiegazione. E allora capisco le parole di Flannery O’Connor: ciò che uno crea, se è onesto con la domanda che porta nel cuore, accade nel Mistero e attraverso il Mistero. La mia mente non può neanche comprenderlo. Proprio come le migliori canzoni rock.

Il televisore, la bambina e il papà

13:06 / Pubblicato da Paolo Vites / commenti (1)

Mia figlia, la più piccola, ha 6 anni. Ogni sera, in quei 15 minuti di tempo libero che ho a disposizione quando sono tornato a casa (tardi) dal lavoro e prima di andare a letto (presto, perché mi sveglio sei giorni su sette alle 6 e 30 del mattino per accompagnare l’altra figlia, la grande, a scuola) o prima di uscire per qualche incontro o andare a qualche concerto – è il mio lavoro – e cerco di vedere un qualche telegiornale, immancabilmente si piazza sempre lì. Nella traiettoria esatta tra il mio sguardo e il televisore. Mica lo guarda, lei, il telegiornale. Si mette a fare qualcosa, ballare, giocare, parlare da sola. Ovviamente mi manda in bestia. Spostati, dico una volta con tono pacato. Spostati, ripeto alzando il tono. E spostati! dico urlando. Allora si sposta, stupita dell’insistenza. Perché per lei è naturale mettersi tra la traiettoria del mio sguardo e l’oggetto che sto guardando. Perché il bambino piccolo deve sentirsi intercettato continuamente dallo sguardo del padre o della madre. Non è un problema di attirare l’attenzione, come certi psicologi alla sbaraglio ci hanno sempre detto. È l’esigenza, connaturale al bambino, di essere nell’orbita affettiva che lo definisce. Come quando si mette a giocare in camera sua. Mi chiede di stare lì con lei anche se non devo giocare con lei. È di una presenza fisica che il bambino ha bisogno. Perché il bambino si sente definito da un altro. Crescendo, perdiamo questa dipendenza dall’altro che è nel nostro dna. Distratti dalle mille cose del mondo e dal nostro senso di superiorità che invece è cosa falsa, che ci appiccichiamo per non sentirci più dipendenti dall’altro. Ma anche diventati adulti, prima o poi la realtà ci fa sempre sbattere in qualcosa che se siamo onesti ci riporta a questa dipendenza. Se non siamo onesti, diventiamo cinici e incattiviti e odieremo la vita. Se siamo onesti, capiremo che anche a 46 come li ho io è un altro che ci definisce. Da soli facciamo solo casino, facciamo del male agli altri e a noi stessi. Allora cercheremo di piazzarci davanti a un televisore chiedendo che lo sguardo di un altro ci intercetti. Solo che Lui questa volta non ci chiederà di spostarci, ma ci prenderà nel Suo abbraccio. Dipende solo da noi. Oggi è il 19 marzo, festa di San Giuseppe e del papà. Buona festa a tutti i papà che leggono questo blog. Attenzione questa sera quando guarderete il telegiornale.

Cosa c'entrano St. Patrick's Day e il 4 X 4 ?

12:50 / Pubblicato da Alessandro / commenti (0)

Sabato Gli Amici di Simone hanno organizzato il St. Patrick's Day e domenica, dall'iniziativa del nostro caro amico Stefano, una giornata nell'entroterra con appassionati di 4X4. Cosa c'entrano? .... Ancora una volta la realtà si è rivelata e mi ha stupito: la Bellezza della serata, il lavoro con gli amici più cari, le persone che non vedevo da tanto tempo, letteralmente "reincontrate", e subito la stanchezza accumulata dal giorno precedente è svanita. Il "tirar sù" un altro evento con l'associazione Amici di Simone non è stato un atto di volontariato. Anche se con scopi umanitari, bellissimi. E magari, come sempre faccio, con la ricerca di una perfezione che non sarà mai possibile. Ma Cristo opera tra noi, ne ho la profonda certezza perchè lo ho incontrato nei volti della serata e il risultato è uno sguardo chiaro, sicuro e grato a Chi ha reso possibile il mio essere e mi fa essere felice. Stare come ho visto stare i miei amici, non è generosità, solidarietà o il piacere di una compagnoneria, ma un'unità vera, con coloro che hanno avuto al loro fianco. Grazie Amici per essere stati testimoni di tutto ciò. E' esattamente questo che mi spinge ad andare avanti con l'associazione, non i risultati, non le cifre raccolte, e nemmeno le persone che riuscirò ad aiutare, ma gli incontri, gli uomini e le donne che incrocio nel mio cammino e che condividono qualche passo con me, hanno a che fare con me, rendendomi sempre più evidente che ognuno di noi è fatto per essere felice, che ognuno di noi desidera essere accolto per quello che è veramente. Ale Grazie a Davide e Stefano per le testimonianze bellissime che seguono. ST. Patrick's Day (di Davide Vaccarezza) Partiamo dalla fine della serata quando Ennio mettendoci una mano sulla spalla ci ha ringraziato dell’aiuto e mentre guardavamo insieme divertiti il figlio di Giovanni che mangiava lo torta dei “26” anni di Angelo, ci ha detto : “che grande che è Gesù”. La semplicità di questa frase mi ha capovolto tutta la visione della serata e mi ha fatto pensare a quanto è facile accorgersi “che abbiamo una mano sulla testa” basta impattare con il reale, col volto di un bimbo o i baffi di Germano e non si può non affermare che siamo abbracciati. La serata, anzi tutta la giornata è stata bellissima, e come mi ha scritto Ale nel periodo in cui organizzavamo il tutto, Noi abbiamo bisogno di bellezza , la Bellezza ti fa rialzare lo sguardo all'essenziale e questo l’ho sperimentato e non sapete quanto sono felice di seguirvi e quanto mi riempie il cuore diventare protagonista nel reale, nel concreto. Grazie Davide Gli amici al banco birra La cena Qualche canto insieme Il Presidente e l'amica del "Cuore" La cucina Part two... Una Giornata alla cava dei Ghiffi con i 4X4 (di Stefano Curcio) (That's Amore) Stefano

In questi giorni, mentre preparavo il raduno di fuoristrada con l'intento di raccogliere fondi per l'associazione "Amici di Simone", mi sono fermato spesso a pensare cosa c'entrasse effettivamente questa manifestazione (o la cena irlandese), con lo scopo della nostra ONLUS. Bè, oggi che i giochi sono fatti è tutto un pò più chiaro, perchè a fare chiarezza sono le persone stesse che ho coinvolto nel gioco e dalle quali non mi aspettavo altro se non un contributo in danaro. Cosa è uscito quindi da un incontro di quattro club di fuoristrada 4x4 che si incontrano in una cava di ghiaia in cima ad un monte? Cosa potevo aspettarmi da gente che si diverte a farsi calare giù da un muro dentro un fuoristrada appeso ad un cavo di acciaio di un altro pazzo 4x4? L'imprevedibile: <> Questo popolo di "fuori di testa", di cui faccio parte, è affascinato da una bellezza che non passa più solo attraverso un filo di acciaio. Il proprietario della cava è entusiasta dell'ordine, della pulizia, dell'organizzazione e soprattutto dello scopo del raduno, a tal punto che, oltre ad offrirci gratuitamente l'uso dell'area, ci dona con insistenza un contributo in danaro! Al ristorante una giovane coppia seduta ad un tavolo vicino, non facenti parte della nostra comitiva, e che quindi nulla avrebbero avuto da spartire con noi, ci lascia anch'essa un contributo, evidentemente affascinata dal pieghevole dell'associazione e dall'entusiasmo che il nostro gruppo emanava. Ho tratto le mie conclusioni: non importa cosa fai o cosa organizzi (potrebbe essere un torneo di briscola od un convegno), ma come lo fai e soprattutto cosa hai nel cuore quando lo fai. La bellezza dell'incontro, dei rapporti, della vita è una conseguenza naturale di tutto questo, che fa passare in secondo piano anche la discreta somma raccolta nell'occasione. Oggi sono nati nuovi rapporti d'amicizia sulla roccia di un bisogno di infinito al quale, in fondo, tutti noi abbiamo l'urgenza di arrivare sia si creda, sia non si creda. Ringrazio il direttivo degli "Amici di Simone" per avermi dato credito ad organizzare un'assurda, sulla carta, manifestazione motoristica che si è rivelata invece un'occasione per incontrare il Mistero. Stefano

13:37 / Pubblicato da Alessandro / commenti (1)

di Rose Busingye La prima volta che ho visto di persona don Giussani era l'estate del 1990. Ero salita fino a Corvara, ero entrata nell'albergo, e lì c'era un uomo che stava pregando. Era lui, ma io non lo conoscevo ancora. Siamo entrati insieme nello stesso ascensore. Lui si è girato e mi ha detto: ma tu sei Rose! Ci siamo abbracciati forte e a lungo, e l'ascensore continuava a aprirsi e a chiudersi e nessuno spingeva il bottone per partire. A quel tempo avevo letto un articolo su 30Giorni in cui don Giussani parlava dei Memores Domini. Diceva che Cristo poteva abbracciare tutti i momenti e tutti gli aspetti della vita. Allora ? Avevo pensato io, anche il mio niente, la mia incapacità, Gesù poteva prenderla e abbracciarla così come era, se voleva. Mi avevano avvertito che per entrare nei Memores Domini avrei dovuto fare dieci anni di noviziato. «Gesù mio, ma quanto tempo ci vuole per stare con Te», pensavo. Quando don Gius mi ha detto che sarei potuta entrare subito, ho avuto paura. «Ma sai quanti anni ho? Non so neanche cosa siano questi Memores», gli ho detto. «Ma tu vuoi bene a Gesù?», mi ha chiesto Giussani. «Beh, quello sì», ho risposto io. «E vuoi dare la vita?». «Eh, la vita... Io non ho niente di importante nella vita da dare a Gesù», ho risposto io, «ma se Lui vuole, voglio che Lui si prenda questo niente». A quel punto Giussani si è alzato, quasi gridando: «Questa cosa qui, vai fuori e dilla a tutti, a tutti! Perché tutti pensano di avere qualcosa di importante da dare a Gesù, e così per tutta la vita è come se aspettassero la ricompensa. E invece è Lui che prende una cosa che è niente, e la salva». Così era don Gius. Io non bevo vino, e lui, ogni volta: «Bevi il vino, senti come è buono! Ma lo sai come lo fanno, il vino?». Ti spiegava tutto sulle viti, la vendemmia, le botti, le cantine, e ti trovavi a bere il vino? Era così bello mangiare così, che mangiavi e bevevi anche le cose mai assaggiate. Don Gius ti faceva gustare tutto. E non ti parlava di Dio. Non c'era bisogno di parlare di Dio. Diceva sempre che un bambino non fa fatica a descrivere come è il papà: sa come fa le boccacce, come fa i muscoli... Anzi, nemmeno lo descrive. Semplicemente, uno vede il bambino e dice: è proprio figlio di suo padre! Ha un modo di fare che assomiglia a suo padre. Giussani diceva che noi non siamo immersi in Cristo, e per questo moltiplichiamo parole su Cristo, fino alla noia. Invece chi è immerso in Cristo è cambiato. Uno vede come tocca le cose, come mangia, come beve, e pensa: ma come mangia! Avrei voglia di mangiare come lui. Di fare le cose come le fa lui. Una volta sono andata da lui e mi ha detto una cosa sulla Madonna. Che è grazie alla Madonna che capiamo di più come opera l' umanità di Cristo, che guardava magari un mendicante, o una prostituta, e chiedeva che il suo destino si compisse. La Madonna ha fatto quello che Dio le aveva chiesto. E basta. Non è andata in giro a far prediche. Noi non avremmo fatto così. Se a uno di noi fosse capitato ciò che è capitato a lei, figùrati, saremmo andati in giro sventolando la bandiera, a dire a tutti: l'angelo di Dio è venuto a parlarmi! Don Gius mi ha detto: «Guarda, se davvero ci tieni che le persone si salvino, fai un passo indietro e chiedi che accada. Perché alla fine puoi solo chiedere a chi può salvare te, se vuole, che salvi anche chi ti sta a cuore». Comunque, quando incontravi don Giussani, la prima cosa di cui ti accorgevi era che era bello stare con lui. Anche se non capivi niente, questo lo capivi: ci saresti tornato volentieri, domani, e anche dopodomani. Quando lo portavano a fare il riposino, lui ripeteva: «Non andar via, aspettami, ci rivediamo dopo». Io e lui non ci siamo mai salutati. Finiva sempre così: ci vediamo dopo. Una volta mi ha telefonato. «Non vieni in Italia?». «Gius, sto qua, a Kampala, non ho in mente di venire». E lui: «Dai, vieni! Vieni!». Io prendo l' aereo, e passo tutto il viaggio a chiedermi: chissà cosa deve dirmi. Arrivo lì, saluti, e lui: «Niente, volevo vederti... ». Per le mie amiche del Meeting Point, è come un padre. Hanno chiamato i loro figli Luigi, non sanno che significa quel nome. Non lo fanno perché è amico mio: quello che è mio è loro, perciò don Gius è diventato il loro grande amico. La sua faccia, adesso, la metterebbero su tutti gli alberi dell'Africa. Mi manca la sua fisicità. Però adesso vede di cosa abbiamo bisogno, prima ancora che noi ce ne accorgiamo.

Una storia irlandese

21:05 / Pubblicato da Alessandro / commenti (0)

AMO L'INFINITO, ABBRACCIO LA REALTA' Da: “Un giorno della mia vita diario di Bobby Sands. “Sono un prigioniero politico perché sono l'effetto di una guerra perenne che il popolo irlandese oppresso combatte contro un regime straniero, schiacciante, non voluto, che rifiuta di andarsene dalla nostra terra (...) Credo di essere soltanto uno dei molti sventurati irlandesi usciti da una generazione insorta per un insopprimibile desiderio di libertà. Sto morendo non soltanto per porre fine alla barbarie dei Blocchi H o per ottenere il giusto riconoscimento di prigioniero politico, ma soprattutto perché ogni nostra perdita, qui, è una perdita per la Repubblica e per tutti gli oppressi che sono profondamente fiero di chiamare la "generazione insorta"». Bobby Sands aveva compiuto da poco ventisette anni quando scrisse nel suo diario queste frasi. La sua morte, avvenuta il 5 maggio del 1981 all'1.17 in uno degli H Blocks di cemento armato del carcere di massima sicurezza di Long Kesh, dopo sessantasei giorni di sciopero della fame, segnò il punto più alto della protesta dei detenuti repubblicani che chiedevano di ottenere lo status di "prigionieri politici". Altri nove uomini, sei dell'Ira e tre dell'Inla, seguirono la sua stessa sorte tra il maggio e l'agosto del 1981. Sands stava scontando una condanna a 14 anni per possesso di armi da fuoco. Bobby era sposato ed aveva due figli, Gerard e Liam, il quale morì 10 giorni dopo la nascita senza che il padre riuscisse a vederlo. La sua storia, che Sands ha raccontato nel diario dal carcere uscito dopo la sua morte - Un giorno della mia vita (Feltrinelli, 1996) - ha rappresentato l'avvenimento più drammatico e terribile di un conflitto, quello dell'Irlanda del Nord, per altro caratterizzato da lutti e tragedie nel corso di tutto il Novecento. Forse per questo in molti considerano lo sciopero della fame del 1981 come l'evento determinante perché si giungesse molti anni dopo, il 10 aprile del 1998, alla firma dell'Accordo del Venerdì Santo, la prima vera tappa verso una soluzione di pace del lungo conflitto tra Londra, i lealisti dell'Ulster, e il movimento repubblicano irlandese. Da un'altra pagina del diario:”Oggi è la festa di San Patrizio e come al solito niente di nuovo. Sono stato a Messa. Con i capelli tagliati stavo molto meglio.Non conoscevo il prete che ha detto la messa. Gli inservienti distribuivano il cibo a tutti quelli che tornavano da messa. Hanno provato a darmi un piatto pieno. Me l'hanno messo sotto il naso,ma io ho tirato dritto come se non ci fossero.(...) Ho visto uno dei dottori questa mattina,un tipo sbarbato.Mi sfibra.Il mio peso è di 57,50 Kg. Nessuna lamentela. Il direttore del carcere è venuto da me e mi ha detto aspramente:”vedo che stai leggendo un libro breve. Meglio così. Se fosse lungo non riusciresti a finirlo”. Ecco che gente sono. Maledetti!Non importa....Non mi stroncheranno perchè il desiderio di Libertà del popolo irlandese sono nel mio cuore.Verrà il giorno in cui tutto il popolo irlandese avrà questo desiderio. Sarà allora che vedremo sorgere la luna. Dopo la morte, Bobby Sands è stato deposto nella bara con una croce d'oro massiccio tra le mani. Pesante, bellissima, grande come una mano, giuntagli direttamente dal Papa, da quel Giovanni Paolo II che, pochi mesi prima, nel settembre del 1979, aveva omaggiato la terra d'Irlanda con una visita, in cui aveva pronunciato frasi in gaelicoe si era rivolto direttamente ai soldati repubblicani, agli uomini della violenza, implorandoli di sotterrare l'ascia di guerra. E ancora, aveva inviato il suo segretario privato,Padre John Magee,tra l'altro nordirlandese, che assieme al Primate d'Irlanda Mons.Thomas O'Fiaigh, tento' di convincere Sands ad interrompere il digiuno,ovviamente senza riuscirci. Ora lo stesso Pontefice, il Papa dei cattolici, e quindi degli irlandesi,inviava ad uno degli uomini della violenza una riproduzione del suo pastorale. Un fatto eclatante, se si pensa che Bobby Sands non solo era un “terrorista”, ma era anche un suicida. I funerali di Bobby si svolseroil 7 maggio, nel primo pomeriggio, nella Chiesa di S.Luca, nel quartiere Twinbrook, zona ovest di Belfast. Al suo funerale parteciparono più di 200.000 persone, giunte da ogni luogo. Bobby Sands è morto, ha assunto l'immagine di uomo simbolo del martirio di un popolo. Lui che,col rifiuto per protesta di radersi e tagliarsi i capelli, è entrato nell'iconografia della sua gente con sembianze simili a quelle di Cristo, quasi con la stessa carica di sofferenza dipinta sul volto. “Io credo nel diritto all'indipendenza dato da Dio alla Nazione irlandese. Per questo sono incarcerato, nudo, torturato”. (tratto da "Bobby Sands - il combattente per la libertà una storia irlandese - di Pierluigi Spagnolo ed.L'Arco e la Corte. Il più bel libro edito in Italia sulla vita di Bobby) ONE ROAD (canzone spesso cantata a Long Kesh) Siamo sulla stessa strada, portando lo stesso peso. Siamo sulla stessa strada, e Dio solo sa dove porta. Siamo sulla stessa strada, e potrebbe essere quella sbagliata.

St. Patrick's Day

07:51 / Pubblicato da Alessandro / commenti (0)

San Patrizio, occorre dirlo anche se molti ne saranno già al corrente, è il santo patrono d'Irlanda e viene festeggiato nella sua patria, e ovunque ci sia una comunità irlandese, il 17 Marzo. Non deve ingannare il nome romano di Patrizio, né tanto meno il suo patronato d'Irlanda: Patrizio, in realtà, non era irlandese ma scozzese. Non si sa con certezza da dove provenisse: egli stesso, nelle sue Confessioni, scrive che suo padre possedeva una terra vicino a un paese oggi sconosciuto, che aveva un nome metà indigeno, Bannhaven, e metà latino, Taberniae. Il luogo più probabile è stato comunque identificato in Kilpatrick e la data di nascita è da considerarsi tra il 385 e il 392 d.C. Come arrivò in Irlanda? Furono dei pirati a trasferire Patrizio in Irlanda: a 16 anni il piccolo (allora chiamato Maewyn Succat) fu rapito dagli uomini del re irlandese Niall of the Nine Hostages e venduto come schiavo a Muirchu, re del North Dàl Riada, nella contea Antrim. Per sei anni, lavorò come pastore in cattività su Slemish Mountain, nella contea Antrim. Da schiavo a missionario. Dopo aver appreso la lingua gaelica e le pratiche dei druidi, un giorno dopo 6 anni di cattività e 2 tentativi falliti, ribellandosi al proprio padrone, Patrizio scappò e, percorrendo a piedi circa 184 miglia, si imbarcò clandestinamente su di una nave diretta in Inghilterra. Una leggenda narra che aveva precedentemente avuto la visione di una nave che lo aspettava. In quei sei anni, Patrizio annota nelle sue Confessioni di essersi trasformato in un ragazzo molto credente, che pregava giorno e notte. Secondo i suoi stessi racconti, Patrizio fece un altro importante sogno, in cui una Voce lo richiamava a cristianizzare l'Irlanda. Per tale ragione si recò in Francia, presso il monastero di Auxerre e si preparò al sacerdozio, viaggiando e soggiornando in diversi monasteri. Papa Celestino lo battezzò finalmente come San Patrizio (dalle parole latine pater civium, ovvero padre del suo popolo), e nel 432 gli affidò la missione di estirpare dall'Irlanda il paganesimo e convertire l'intera nazione alla cultura cattolica, riprendendo la missione abbandonata da un precedente vescovo, Palladius. Fu così che Patrizio tornò in Irlanda, l'isola nella quale era stato schiavo e dove ora tornava vescovo, allora abitata dai Celti Scoti, pagani alti e biondi dediti a pesca e pastorizia. I successi in Irlanda San Patrizio fu spesso minacciato di morte, catturato e condannato, ma riuscì comunque a portare avanti la sua missione in nome di Dio con sorprendente successo. Il santo percorse l'intera Irlanda, predicando e insegnando nella lingua locale, fondando abbazie e monasteri, soccorrendo i bisognosi e operando miracoli. Trattò con i Druidi per affiancare una simbologia cristiana alla festa celtica di Beltaine (1° maggio) che celebrava il ritorno dell'estate. Di qui il simbolo del sole aggiunto sulle croci celtiche. La sua opera fu così grandiosa che oltre sessanta chiese furono costruite in suo onore, la più importante delle quali si trova a Dublino ( St. Patrick's Cathedral ) e divenne ben presto un eroe nazionale, oltre che patrono d'Irlanda. Nel giro di tre decenni, San Patrizio aveva portato a termine la sua missione: la quasi totalità dei Celti Scoti, compreso il loro intrarrabile re Laoghaire, si era convertita. E la sua eredità sopravvisse: entro la fine del V secolo, infatti, l'Irlanda era una nazione cristiana.
May the road rise to meet you, may the wind be always at your back, may the sun shine warm upon your face, and the rains fall soft upon your fields and, until we meet again, may God hold you in the palm of His hand. "Sia la strada al tuo fianco, il vento sempre alle tue spalle, che il sole splenda caldo sul tuo viso, e la pioggia cada dolce nei campi attorno e, finché non ci incontreremo di nuovo, possa Dio proteggerti nel palmo della sua mano."

JOY

14:55 / Pubblicato da Alessandro / commenti (1)

La gioia è amore, la conseguenza logica di un cuore ardente d'amore. La gioia è una necessità e una forza fisica. Non importa quanto si dà ma quanto amore si mette nel dare. Non cercate Gesu' in terre lontane: Lui non è là. E' vicino a voi. E' con voi. Basta che teniate il lume acceso e Lo vedrete sempre. Continuate a riempire il lume con piccole gocce d'amore e vedrete quanto è dolce il Dio che amate. (Madre Teresa) Beh, se un blog non serve a condividere cose belle a che serve? Che siano cose un pò "forti" a volte, semplici o tristi o felici ma comunque, spero, sempre rimandanti ad una domanda sulla nostra vita. A volte semplicemente gioiose, ma non di una gioia sciocca senza "perchè". Io lo so' il perchè...come il video qui di seguito...

La regola

09:43 / Pubblicato da Paolo Vites / commenti (0)

Carissimi amici, molti mi chiedono: “come fai o hai fatto a recuperarti dalla depressione e come puoi affermare che la depressione è una grazia e non una malattia?”. 1. la cosa è molto semplice e drammatica: ho preso sul serio “Il senso religioso” e in particolare le tre premesse. Lì c’è tutto. le ho imparate a memoria e le ho vissute anche nelle virgole. Non ho avuto bisogno né di psichiatri (eccetto uno per questione di pastiglie…ma quando mi ha detto: “mettiti nel lettino” me ne sono andato). Il costante confronto con la Scuola di comunità è stata ed è l’unica terapia. 2. obbedienza totale alla realtà, così come Giussani e Carron ce la spiegano: pane al pane e vino al vino. Bando ai sentimentalismi, emozioni…la realtà chiama e uno o ha l’umiltà di rispondere o va a in rovina. Se la depressione ti fa scappare dalla realtà, uno deve subito chiedere di essere preso dalla realtà. 3. l’abbraccio di qualcuno a cui obbedire come un bambino. Ma qui se non c’è l’umiltà della ragione non accade assolutamente nulla. Per me questo era ed è chiaro, come è chiara la lotta perché l’orgoglio, che è il contrario della realtà, non vinca su di me. 4. una grazia perché tutto ciò che mi permette di mendicare Cristo è una grazia. E, credo, visto la testa dura che abbiamo, non c’è niente come la malattia che può metterci in ginocchio. Certo c’è la bellezza. Ma tristemente per noi è solo un esteticismo per cui non ci muove, non ci piega. Allora benedetto sia il dolore. In fondo il punto è uno solo: o Dio c’è o non c’è. Ma se c’è tutto ciò che ci rimanda a “io sono Tu che mi fai” è grazia. Il mio ospedale è per me il miracolo più grande che ho perché anche i tumori di 1 kg alla mascella dei miei ammalati diventano grazia, cioè incontro con Cristo. Amici, o siamo convinti di questo o è meglio l’anarchia. O Cristo o niente. Ciao P.Aldo Molti ci chiedono di venire in Paraguay per conoscere e vivere ciò che qui accadde. Siamo commossi per tanta grazia e vorremmo che tutti la partecipassero. Però desideriamo umilmente chiarire alcune cose: 1.- Cristo é venuto e ha fatto il cristianesimo. Don Giussani lo stesso, Carron lo sta facendo e noi qui, pure. Allora qualunque luogo é condizione é stupendamente positiva. 2.- La questione é solo una: la familiarità con Cristo. 3.- Questa esige un lavoro: scuola di comunità é essenziale como l'aria. 4.- Seguire i segni inconfondibili del Misterio presenti e indicatici quotidianamente. 5.- Il venire qui é per l'abbondanza della passione per Cristo che ti fa usare le vacanze o il tempo libero in modo differente. E per imparare assieme uno sguardo differente di fronte al dolore e alla morte. 6.- Per questo c'é una regola che é la vita che noi facciamo come proposta per tutti. 7.- Abbiamo una preferenza per quelle persone che come me hanno problemi di depressione... come continuità di quell'abbraccio del Gius... e di lingua spagnola 8.- Per questo motivo chiediamo a tutti pazienza perché noi sacerdoti vogliamo valutare caso per caso, tenendo presente non solo la professionalita, l'etá ma anche l'accoglienza delle regole dell'istituzione. Spero ci comprendiate, ma é perché il venire qui non sia una fuga della realtà e cogliere sempre di più quanto Carron dice. Con grande affetto, i sacerdoti P. Aldo, P. Paolo, P. Daf

Dell'amore e della bellezza

12:12 / Pubblicato da Paolo Vites / commenti (1)

“Mostrami un’amante che sia pur bellissima: che altro è la sua bellezza, se non un consiglio ove io legga il nome di colei che di quella bellissima è più bella” (W. Shakespeare, Romeo e Giulietta) Le più belle canzoni sono le canzoni d’amore. Orrore, per certi (tanti) maestri del pensiero: la canzone deve essere impegnata. Oppure, con disprezzo, le canzoni d’amore vanno bene per Sanremo. È un dato di fatto che la canzone impegnata passa e si dimentica con le stagioni che le girano intorno. Ma le canzoni d’amore si canteranno sempre. Dov’è infatti che il cuore dell’uomo va a sbattere, sempre? Nelle discussioni politiche? Nel modo migliore di salvare il mondo? Nah, quello va bene per Porta a porta o per L’infedele. Perché Bob Dylan, a parte qualche brano a inizio carriera, è 40 e più anni che canta solo canzoni d’amore? Perché Nick Cave ha avuto l’ardire di dire che “la Canzone d'Amore esiste per riempire, col linguaggio, il silenzio tra noi stessi e Dio, per abbattere la distanza tra il temporale e il divino”? E ancora, “la Canzone d'Amore è la luce di Dio, giù nel profondo, che si fa largo tra le nostre ferite”. È ovvio il perché, per chiunque faccia esperienza del reale: il nostro cuore è mendicante per natura, mendicante di amore corrisposto che possa riempire il grande desiderio che lo costituisce. Non sarà mai abbastanza, l’amore che troveremo su questa terra. Saremo sempre implacabilmente spronati a volerne di più. Come diceva Shakespeare, nel volto della persona amata, in una canzone o una poesia, a volte inconsciamente, a volte con rabbia, a volte con dolore, incontriamo poi la Bellezza. Diceva don Giussani che “l’attrattiva di una bellezza segue una traiettoria paradossale: quanto più è bella, tanto più rimanda ad altro. L’arte – pensiamo alla musica – quanto più è grande tanto più apre, non conclude, spalanca il desiderio, è segno di altro”. L’amore e la bellezza sono un rimando ad altro. Sono segno. Il poeta sa cogliere anche in una stella cadente il volto della sua amata che diventa segno, rimando a un Altro: “Ho visto una stella cadente stasera, e ho pensato a te” (Bob Dylan, Shooting Star). Non è formidabile che un sacerdote abbia colto tutto questo? Ecco cosa dice ancora don Giussani: “Tu sei innamoratissimo della tua ragazza. Ma, dimmi, in ultima analisi, di che cosa è lei fatta? Di qualcos’Altro, come te. Non c’è nulla di più evidente, in questo momento, chiunque tu sia. E chi te l’ha fatta incontrare? Il Signore della storia, Colui che ha in mano tutti i fili del tempo e dello spazio, che è lo stesso di cui, ultimamente, lei è fatta: Cristo. E chi te la manterrà domani? Chi non te la farà scomparire? Lui. Te la fa incontrare Lui, te la rende compagna eterna, per sempre, Lui. Allora, verso Cristo non può non venirti un’onda di tenerezza ancora più grande della tenerezza che hai verso questa ragazza. La realtà, nella sua verità è segno di “qualcosa d’altro”, è segno di Cristo, “consistenza di tutte le cose”. Tutti noi siamo chiamati a investire e vivere secondo la sua verità, cioè come segno di Cristo.” Anche gli autori di canzoni sono chiamati a cogliere il segno di Cristo. Altrimenti, una canzone è solo rumore (come diceva Congdon).

GOODBYE CHARLES, GOD BLESS YOU. - In Loving Memory

15:15 / Pubblicato da Alessandro / commenti (1)

Ci e’ stato detto: "cercate ogni giorno il volto dei santi" e “santo e’ colui che continuamente sorprende l’intero suo essere come amato dal Dio fatto uomo” per questo volevo scrivere qualcosa del mio amico Charles che e’ improvvisamente mancato un giorno della scorsa settimana. Non so molto della sua storia precedente a quando l’ho conosciuto nel 2005 a Philadelphia. Si era trasferito lì da alcuni anni dal New Jersey dove era nato e aveva vissuto gran parte della sua vita. La ragione del trasferimento era il lavoro o meglio la perdita del lavoro … questa situazione ricorrente di ricerca affannosa e licenziamenti e’ stato una delle pene ricorrenti della sua vita. Negli USA come sapete e’ relativamente facile trovare lavoro, ma allo stesso tempo si può scoprire il giorno stesso di essere stati licenziati. E non esiste la cassa integrazione … L’incontro con il movimento era accaduto quando lavorava in un ufficio a New York tramite un collega. E da quel momento il legame alla comunità di CL di New York e poi di Philadelphia era al centro della sua vita. Così mi scriveva: Il ritiro della Fraternità e’ stato grande. E’ come se avesse risposto direttamente a me, al mio vuoto di quest’anno. Tutto l’anno sono stato infelice al lavoro. Non ho condiviso questa difficoltà con la comunità ma la comunità e’ la presenza di Cristo nella nostra vita. Ho capito che devo lasciare la presenza, l’attrattiva di Cristo entrare nella mia vita. I rapporti con la famiglia si erano affievoliti già da molto tempo, il padre andato via di casa e mai più fatto vivo, ma quando raccontò a sua madre e le due sorelle che era diventato cattolico non gli parlarono più... Charles si era laureato a Harvard una delle università più prestigiose in USA, laurea in lingue Orientali, molto singolare, ma non utile per trovare lavoro. Così si era reinventato come sviluppatore software un mestiere che negli anni ‘80 prometteva molto bene ma che ultimamente ragazzini appena usciti dall’università’ sapevano fare meglio e più velocemente di lui. Quando ci siamo conosciuti nel 2005 Charles era l’unica persona del movimento nel paesino dove mi ero trasferito per lavoro, North Wales, a 30 miglia da Philadelphia. Nonostante la completa diversità, a cominciare dal colore della pelle (Charles era Afro- American), qualcosa a poco a poco ha preso il posto della diffidenza e colmando la distanza ci ha fatto diventare amici. Abbiamo iniziato ad andare insieme alla scuola di comunità a Philadelphia il Venerdì sera, quaranta minuti di macchina ad andare e altrettanti a tornare. Poi si e’ instaurata la tradizione della domenica mattina: S. Messa e brunch a seguire in qualche pub. Nel 2007 dopo due anni, quando sono rientrato in Italia e ci siamo dovuti salutare sapendo che forse non ci saremmo rivisti mi sono reso conto di come il Signore mi era stato vicino in questo momento particolare, in una forma così diversa da come io avrei mai pensato. Quando sono tornato in Italia ci siamo continuati a sentire per telefono e per email. Ogni Natale aveva il proposito di fare il viaggio e venirci a trovare ma poi sopraggiungeva il problema del lavoro e non poteva venire. Mi colpiva di Charles il modo semplice con cui guardava senza soluzione di continuità le varie fatiche della vita quotidiana e la presenza di Gesù’nella sua vita. Come quando mi scrisse una volta: Mercoledì notte ho pregato di aver più forza di volontà nel mettermi a dieta e fare ginnastica. Un’ora dopo mi e' venuto sangue dal naso così forte che sono dovuto andare al pronto soccorso. All'ospedale hanno fatto dei test e mi hanno detto che era colpa della mia pressione sballata. Questo mi ha così spaventato che da allora mi sono messo a dieta. E’ strano il sangue dal naso, ti preoccupa ma non fa male. Gesù ha risposto alla mia preghiera. La commozione non lascia spazio ad altre parole, però anche se e’ stato per poco sono grato di questo amico con cui abbiamo fatto un pezzo di salita insieme aiutandoci a seguire il sentiero di chi ha camminato prima di noi. Goodbye Charles, God bless you. (Marco Andragotto)