Il caso non esiste

11:15 / Pubblicato da Paolo Vites / commenti (1)

"Questa conversazione che stiamo facendo adesso è già accaduta" mi dice, lasciandomi alquanto perplesso, John Waters mentre ci fermiamo a parlare fuori del ristorante del Meeting dove abbiamo pranzato con alcuni amici del Sussidiario e la redattrice di Traces, la versione stelle e strisce di Tracce. "La mentalità moderna continua a insistere che bisogna guardare avanti" dice ancora il giornalista irlandese che ha ritrovato la fede dopo una esistenza nella corsia di sorpasso, "che il futuro realizzerà i nostri sogni. Non è vero. Passato e futuro esistono solo nel momento presente, è nel momento presente, in questo istante che accade ora che la vita si spiega. Quello che ci stiamo dicendo adesso è già stato pensato e voluto da Dio". Ecco. E io che lo avevo assillato con domande su cosa sarà della mia vita, le mie incertezze e i miei dubbi. Conversazioni che accadono facilmente al Meeting di Rimini, edizione del trentesimo anniversario. Non è un caso che uno degli incontri del Meeting, quello con il figlio del commissario Luigi Calabresi, si intitoli proprio "Il caso non esiste". Questo Meeting mette a dura prova. La fatica è cosa non da poco, specie per chi arriva da giorni di vacanza molle. Fa caldo, molto, e la calca di persone è in certi momenti insopportabile. La coda per visitare le mostre più significative, ad esempio quella bellissima dedicata al Rione Sanità di Napoli e alla novità affascinante che vi è nata grazie a un gruppo di amici, possono durare anche mezz'ora. Poi se fai come noi che ti porti al Meeting una banda di ragazzini la fatica è ancora di più. In certi momenti ti scoraggi pure: ma che ci sono venuto a fare qui dove per cenare ci metto anche due ore e mezza? Il fatto è che il Meeting è come la vita. Non è come le feste di partito o le sagre della melanzana dove ci si va per dimenticare la vita: qui, come dice John Waters, la vita accade, ora. Il Meeting è faticoso e richiede apertura e disponibilità totali proprio come nella vita. Trentamila persone sono piovute giù nel terzo giorno solo per ascoltare Julian Carròn parlare di San Paolo. Il Meeting, come la vita, richiede adesione. E poi fai gli incontri più belli, quelli che ti rilanciano. L'amica che ha lasciato il movimento da dieci anni ma che ancora adesso chiama quel luogo "l'unica casa che ho avuto". Ci si saluta con la promessa di non lasciarsi per strada. Puoi incontrare Vicky e Rose. E alla fine, poco prima di partire, al bar dei "napoletani", incontri don Eugenio che come sempre lascia immediatamente la conversazione in corso per abbracciarti forte. Ecco, è in quell'abbraccio forte che si scioglie tutta la fatica fatta al Meeting e ti senti nell'unica casa che puoi avere. Adesso sei pronto a ripartire, a ripartire da quell'abbraccio che non ti lascia mai, seguendo l'esperienza di un altro. Come diceva Carròn agli esercizi della Fraternità, il Meeting insegna che bisogna "seguire fin quando a un certo punto uno segue se stesso colpito dall'esperienza che fa un altro, perché è così tutt'uno con se stesso che alla fine segue se stesso colpito dall'esperienza di un altro". Paolo Vites E' un momento particolare. Uno di quei momenti in cui la domanda è viva e presente. Io che sono un'ansiosa preferisco che tutto (o quasi...) sia a posto, che non avvengano troppi scossoni. Invece quest'estate 2009 è uno scossone. Mi ha obbligato a cercare di stare in modo serio davanti alla mia vita.... Ed eccoci al Meeting! Sì, può prevalere il lamento (non si portano i bambini al meeting, che caldo, ma quanta gente c'è, che palle tutte 'ste code, ecc) ma poi non si può non guardare a Chi ha permesso tutto questo. A Chi ha permesso gli scossoni nella mia vita. Ho visto bene solo 2 mostre, ho partecipato a 3 incontri e ho speso un pò di soldini in libreria. Poi con i miei amici ho incontrato Rose e VicKy. E poi un amico, anzi, l'amico dell'estate 2009 (perchè attraverso gli scossoni Gesù ti fa incontrare amici nuovi che ti guardano in modo nuovo, come ti guardano i tuoi amici-fratelli più cari, quelli di sempre) mi presenta a Don Eugenio, il prete che mi ha fatto prendere coscienza dell'imminente scossone, e il suo sguardo e quell'abbraccio me lo porto via! Lieta come non mai. In questo momento in cui troppe volte i se prendono il sopravvento sono lieta, perchè certa che "tutto è dove deve essere e va dove deve andare: al luogo assegnato da una Sapienza che - il Cielo ne sia lodato - non è la nostra". E guardo i miei amici, l'amico più caro, l'amico nuovo che col suo sguardo e un regalo mi fa sentire voluta bene, sul serio... e il mio bambino che nonostante i capricci mi ringrazia per averlo portato in un posto dove eravamo tutti amici! Ecco perchè si portano i figli... perchè per loro, le loro vite e gli eventuali improvvisi scossoni desidero solo questo! Cristina Bona

La prima pietra. (Lettere dal carcere)

12:01 / Pubblicato da Alessandro / commenti (3)

Le dieci di sera di martedì 4 agosto 2009

Amici carissimi,

sono davvero lieto che oggi mi abbiate scritto di nuovo, e con oggi (4 ago) intendo il giorno in cui ricevo a mano la lettera di Maurizio e Alessandra C.. Prima c'era stata la lettera di Francesca T., altro scritto tanto gradito quanto delizioso, ma sempre preceduto dall'attenzione e dalle preghiere di voi tutti. Devo dire che mi piacciono moltissimo queste sorprese da parte vostra, oltre che per le cose che mi dite, anche perchè per istinto mi confortano. Mi confortano perchè la cosa peggiore che può capitare ad un uomo che, come me, rimane molto tempo da solo è di non avere più molta immaginazione, ma voi, non interrompendo il cordone ombelicale con quell'irripetibile esperienza delle torte fatte in onore di Simone, fate in modo che la mia fantasia rimanga sempre viva e, in questo modo, mi tenete legato alla vita. Del resto voi non potete immaginare quante cose io so di voi perchè Vincenzo e altri mi raccontano, in cui voi apparite come una forza benefica e piena di responsabilità per noi. Perdonatemi anzi del mio silenzio e della mia tristezza, ma è tutta colpa delle pubbliche sciagure se fino ad oggi non mi sono degnato di ringraziarvi con uno scritto. Nell'ultimo periodo mi sono ritrovato senza verve e senza forze, ho attraversato una condizione di gran lunga peggiore delle precedenti, perchè senza aspettarmelo ho visto polverizzarsi tutte le aspettative processuali che mi ero creato. Mi ripetevo, allora, che la vita per me in questo stato, la vita così non è vita. E a che serve essere ottimisti se non esiste rimedio?

Non ho mai pensato di cedere alla tentazione di una depressione, sia chiaro, ma cercate di capirmi: che fai quando ti senti solo e così insicuro di tutto? Quando provi un profondo senso di smarrimento e di disperazione? Dove andare, che fare, che dire ai figli, che dire a se stessi? Riuscite a capire quanto può essere amaro per un uomo colpito da un dramma personale di così grande portata? Si guarda il mondo come da una finestra. Da un lato si vedono persone felici, senza pensieri, e dall'altro si vede se stessi: non è facile da accettare. Per carità, non merito di essere compianto nemmeno da voi, perchè al punto in cui sono ci sono voluto arrivare io, però credetemi che si aprono ferite non facili da medicare. Ci sono soprattutto famiglie che pagano il prezzo di decisioni insensate. Ci sono figli cresciuti senza genitore che soltanto adesso cominciano ad elaborare l'enormità di quanto accaduto. E lo fanno da soli, sulle loro spalle, lottando con un imbarazzo difficile da ignorare. Questa è la verità prevalente che mi rendeva così cupo, al di là del fatto che in tutta la mia vicenda non c' è un discorso, non c'è una parola che odori di giustizia, d'intelligenza, di buon senso. Poi c'è stata la mobilitazione che sapete, tante persone che si sono schierate dalla mia parte, sicchè in essa ho trovato la forza per uscire dall'apatia in cui stavo per sprofondare e, buon Dio, ora sfiderei tutte le forze dell'Inferno, sapendo di poter contare sul vostro appoggio e sulle vostre preghiere. Ma ho verificato ancora una volta che quando uno dipende dagli altri in tutto, beh, perde la capacità di essere se stesso, perde la razionalità, perde tutto. E se non trova il giusto aiuto, finisce per perdersi.

In generale, io evito sempre di valutare chiunque fondandomi su ciò che si suole chiamare intelligenza, bontà naturale, prontezza di spirito, perchè so che tali valutazione hanno ben scarsa portata e a volte si rivelano ingannevoli. L'opinione che mi sono formato, tuttavia, è che la gioia nella vita venga soprattutto dalle persone che incontri -se trovi quelle giuste- e da tutti i pezzetti che ho messo insieme, ho capito che voi lo siete. Anzi, lo dico perchè mi da molta soddisfazione farlo, voi siete senza confronto le persone più gradevoli e concrete che io abbia mai visto operare in carcere. E non lo penso solo io, in molti qui, dicono che avete lasciato il segno.

Qualcuno potrà obiettare che è piuttosto comune diventare emotivi dopo un'esperienza come la mia, ma tutto ciò che io e Vincenzo abbiamo ricevuto da voi, amici, non ha prezzo. Prendete le lettere che mi avete scritto: sono deliziose per il tono di dolcezza e di fiducia che vi regnano, personalmente le ho trovate oneste e sincere come il vostro animo. Anche oggi, infatti ero cupo, triste, sofferente, ma poi ho ricevuto la seconda lettera portatami da Francesca, l'ho letta, e ho brillato per il resto della giornata. Ve lo farei domandare a Ernesto, se sia vero oppure no. Allora, non so se voi siete fatti della stessa sostanza di cui sono fatti i sogni; non so se quello che dite nelle vostre preziose lettere sia solo un'illusione gonfiata dalla speranza; non so nemmeno se dico queste cose perchè la mia vita ora è ridotta a un centimetro quadrato e questo condiziona concretamente le mie vedute; ma tutto quello che so è che vi voglio bene più della felicità e del piacere, di questo siatene certi, perchè voi mi tenete in vita come niente e nessuno al mondo. Francesca S. è una persona piena di sorprese, d'accordo, non la scopro certo io anche se ho avuto la fortuna di constatarlo personalmente, ma di sicuro siete stati voi tutti, insieme, che avete smosso le acque del mio immobile stagno, facendomi l'onore di credere che sono rimasto incastrato ingiustamente nella sentenza che ho subìto. Questo significa che Dio c'è, che mi vuole bene, che nutre per voi una profonda stima, se vi ha messo sulla mia difficile strada. E c'è da capirLo: le persone virtuose e sincere sono talmente rare, che non si finisce mai di apprezzarle e usarle per fare il bene. Credo perciò anche alle virgole che parlano di voi.

Un'ultima cosa: mi sono riconosciuto in Francesca T., quando nella sua lettera ha accennato al vuoto lasciato da Simone. Capisco quanto sono importanti i figli, io ho cercato di sopportare tutto soprattutto per il mio Emanuele, che si preoccupa molto per me. Perciò un fattore ha pesato più di ogni altro sulla mia decisione di accettare il vostro aiuto, quello che questa donna e suo marito hanno sofferto veramente. Ho pensato che solo persone in questa situazione potevano capire la mia e intuire il mio inferno, e con loro tutti gli amici che hanno aderito all'Associazione, i quali, svolgendo una gran quantità di lavoro serio per altri bisognosi, non hanno fatto sentire inutile una perdita così importante. Ebbene, grazie a tutti voi per non avermi fatto cadere in quello stato di inerzia che non mi avrebbe permesso di essere grato per ciò che mi viene dato.

Non so per quanto tempo dovrò mangiare questa pasta scondita e dormire in letti scomodi, ma vi assicuro che se un giorno avrò la possibilità di dimostrarvi la mia riconoscenza lo farò molto volentieri. Che questo accada o meno è probabile pure che non ci vedremo mai. In ogni caso, carissimi amici di Simone, sappiate che quell'embrione di stima e di amicizia che è nato per voi resterà sempre intatto in fondo al mio cuore come la prima pietra di un edificio.

Mille abbracci e tante cose a tutti.

Giuseppe.

Una macchia rosa ben precisa

11:44 / Pubblicato da Alessandro / commenti (3)

Ieri sera stavo leggendo l'ultimo libro di don Giussani,"Qui ed ora",e alcuni passaggi mi sono sembrati un giudizio su come io mi sono rapportato alla serata alla torta dei Fieschi. Infatti ha pesato, anche giustamente, la negatività di tutti i testaieu avanzati, la fatica sprecata di una settimana di lavoro, l'incasso sicuramente minore di come speravo.Così mi sono preoccupato di più delle cause, di una errata valutazione delle possibilità di vendita ,del posto dove eravamo, delle presenze che erano calate rispetto agli anni precedenti e via di questo passo. Ma se da un lato un bilancio è necessario per non rifare gli stessi errori, questo può essere l'ultima parola? In una canzone di Chieffo si definiscono i bilanci "assurdi inventari fatti sempre senza amore"e alcuni brani di don Giuss hanno ricentrato la questione:
"Continuare a essere attivisti, continuare a buttarsi nelle iniziative, in un attività frenetica, stanca e logora, a meno che tale attività, per un cambiamento profondo, non diventi espressione nostra. Allora uno lavora da mattina a sera, si stanca come una bestia, va a letto e dorme, ma è contento, perchè tutta la sua attività lo esprime, esprime la sua persona, afferma la sua persona e perciò lo matura."pag.72
"La nostra idea di fare storia è profondamente cambiata: prima fare storia era costruire qualcosa, forti di una propria originalità, di una propria idea, ora fare storia vuole dire accogliere l'opera di un Altro, cioè accogliere il fatto che ciò che rende vera la mia umanità è un Altro" pag 106 Cioè per giudicare tenendo conto di tutti i fattori, per fare emergere la verità di quel gesto dovevo tenere conto non solo della fatica della settimana, ma che la passione dei ragazzi, belin parliamo come se fossimo da casa di riposo, è un valore a prescindere, quella sera in un angolo di piazza c'era comunque una macchia rosa ben precisa, che magari lentamente e faticosamente è parte di un popolo, che nonostante i miei limiti e la mia pigrizia è casa mia, quella dimora che è punto fisso di un peregrinare che ora ha anche una meta, un punto di approdo. Insomma se da un lato è giusto valutare l'efficacia della serata l'ultima parola deve essere la gratitudine per l'amicizia, per una "compagnia guidata al Destino" che rende possibile che quel destino, cioè Cristo, diventi carne, sostanza della mia quotidianità. Il giudizio più vero diventa la preghiera detta insieme prima di iniziare.

Safe in heaven dead

12:31 / Pubblicato da Alessandro / commenti (0)

I suoi grandi occhi passavano dal sorriso luminoso alle lacrime in pochi secondi. Guardavi gli occhi di Fernanda Pivano, la Nanda come la chiamavano gli amici, e pensavi: questi sono occhi che hanno incrociato quelli di Cesare Pavese. E di Ernst Hemingway. E di centinaia di altri protagonisti della letteratura del ventesimo secolo. Faceva impressione che questa piccola donna avesse condiviso lavoro, gioie e dolori con tutti questi giganti. Che lei aveva amato profondamente perché amava profondamente la letteratura. Sempre alla ricerca di un nuovo scrittore, di un nuovo amore a cui dedicare notti di lettura. E dopo averlo conosciuto e amato lei, ce lo faceva conoscere ed amare anche a noi. Ha attraversato tutta la seconda metà del secolo scorso con il fuoco della letteratura che le bruciava dentro, da quando aveva avuto come insegnante proprio Cesare Pavese poco prima dello scoppio della Seconda guerra mondiale. Nel 1943 arriva la sua prima traduzione, quella dell'Antologia di Spoon River e con essa l'inizio di un patto di ferro con il mondo degli scrittori americani. Oggi si può dire, magari scatenando le ire di qualcuno, che la Nanda non fosse proprio una grande traduttrice. Anche il celeberrimo Sulla strada di Jack Kerouac non fu reso in italiano da lei come avrebbe meritato. Quando si andava a cena con lei con qualcuno dei suoi “amici americani”, questi si stupivano di come avesse potuto affrontare tante traduzioni lei che l'inglese non lo masticava proprio bene. Ma non era questo il punto. Più che una traduttrice o una scrittrice, Fernanda Pivano è stata commossa partecipe di uno dei periodi più rigogliosi della storia della letteratura americana, in cui si è infilata senza paura, condividendo amicizie e facendosi carico di proporre questi scrittori a editori di casa nostra che naturalmente giudicavano queste opere perdite di tempo. Lei ci ha rimesso tempo, soldi e salute, ma alla fine ha dimostrato che aveva ragione lei. Anche se traduzioni migliori sono arrivate poi. C'è una foto bellissima che testimonia più di tante parole chi è stata questa piccola grande donna. Sul finire degli anni 60 il poeta americano Allen Ginsberg venne in Italia per alcuni reading. Andò a trovare la sua amica Nanda – che conosceva sin dagli anni 50 – che villeggiava come suo solito a Santa Margherita Ligure. Saputo che in quei giorni ci si trovava anche il grande poeta e scrittore Ezra Pound, le chiese di farglielo incontrare. A Ginsberg, come a tanti americani, non importava nulla dell'ostracismo in cui, per ideologici motivi era stato posto Pound. Importava solo la bellezza delle sue parole. La foto, scattata a Portofino, tempio della mondanità, ritrae Ginsberg, con il suo look del periodo, cioè da hippie, totalmente fuori contesto nel luogo dove si trovavano; la Pivano, sorridente come sempre, ed Ezra Pound con l'aria annoiata di chi vorrebbe essere altrove. Ma è uno scatto formidabile che mette insieme storie culturali e umane diversissime, incroci letterari che hanno reso grande il Ventesimo secolo. Storie di cui spesso la Pivano è stato il collante e il testimone. Come quando portò, nel 1968, un ormai alcolizzato e vicino alla morte Jack Kerouac per una intervista televisiva alla Rai. Un documento doloroso, dove una delle menti più brillanti della letteratura americana ha ormai dato il suo addio, con la Nanda che tenta l'impossibile per tirare fuori una parvenza di intervista. Una generazione di “maledetti” che si erano arresi alla vita, quegli scrittori beat. Lei scherzando diceva: “Facevano sesso, si drogavano davanti ai miei occhi. Ma io non ho mai fatto niente, non mi sono mai drogata né ho fatto l'amore con loro. Che stupida che ero”. A lei bastavano i libri e la loro amicizia. Nel 1965 conobbe Bob Dylan: da donna intelligente aveva capito che la nuova letteratura americana si era travasata da sola nella nuova canzone rock. Fu a Berkeley, in uno dei primi concerti in cui l'ex paladino della canzone di protesta indossava i panni del rocker anfetaminico. Berkeley, avamposto della controcultura rivoluzionaria, fu l'unica città americana dove Bob Dylan non venne fischiato dal pubblico per quella che la sinistra ortodossa giudicava una scelta commerciale. Dopo il concerto andò a cena con lui e Ginsberg. Da allora, la Pivano cercò di rivederlo più volte ma con scarsa fortuna. Dylan era ormai inavvicinabile, e lei ci piangeva sopra. Ma continuava a dedicargli affettuose parole. Negli ultimi anni della sua vita, la Nanda era tornata alla ribalta grazie alla sua riscoperta operata da cantautori di casa nostra, magari più in cerca di una sponsorizzazione che di una vera passione e conoscenza della persona. Per tutti gli anni 80 e i primi 90 infatti in Italia nessuno si era più ricordato di lei. Adesso era tutta una corsa per averla addirittura ospite su qualche disco. Probabilmente il ricordo più bello e sincero è quello operato dal regista Luca Facchini nel suo recente film documentario “Fernanda Pivano, a farewell to Beat”,opera in cui era il regista era riuscito a riportare, dopo tanti anni, la Pivano in America, a dare un ultimo saluto alle tombe dei suoi amici americani. Spesso i suoi grandi occhi neri si riempivano di lacrime. Nel sogno pace & amore degli anni 60 lei ci aveva creduto, ma lo aveva visto sfumare nel nulla. Si consolava con l'amicizia di nuovi eroi, come Lou Reed, il rocker newyorchese che negli ultimi anni la andava a trovare spesso. Una volta, tanti anni fa, mi telefonò a casa a mezzanotte, l'ora in cui lei cominciava a lavorare. “Dottor Vites” mi disse. Nessuno mi aveva mai chiamato così. “Ho letto le sue cose. Ma lei cosa vuole che io faccia per lei?”. Nulla, è già tanto che lei abbia letto le mie cose. “Che strano. Lei è il primo che non mi chiede qualcosa in cambio, lo fanno tutti”. Forse perché non le ho mai chiesto nulla che quella notte nacque un'amicizia semplice e bella. Erano tempi, inizio anni 90, che della Nanda si erano dimenticati tutti. Non era ancora scattato quel meccanismo di sponsorizzazione che avrebbe accompagnato i suoi ultimi anni, quando personaggi che non avevano mai avuto nulla a che fare con lei e con il suo mondo facevano a gara per averla sul palco o sui loro libri. Lei era davvero sola in quei giorni, e malata. Andavo nella sua casa in via Senato a Milano, rigorosamente dopo le 8 di sera, una casa grande e buia, piena di pile di libri disordinati ovunque, anche sulle seggiole. Non sapevi mai dove sederti. Una infermiera se ne andava e lei compariva, piegata sul suo bastone. Piangeva, tanto. Nessuno mi cerca più. Mi lasciava frugare nei suoi armadi, tra i libri. Roba da far paura: gli originali del San Francisco Chronicle, libri con dediche di Hemingway. Mi permetteva di prendere quello che volevo, per fotocopiarmeli. Il romanzo autografo mai finito di Neal Cassady. Fossi stato lo stronzo che non sono mai riuscito ad essere avrei potuto sparire con quel ben di dio, farci dei soldi e magari anche una carriera. Dopo andavamo a cena in Corso Venezia, un bel ristorante dove era accolta come una principessa. E finalmente la Nanda sorrideva. Prendeva sempre a fine cena una spremuta di mandarino. Non ci avevo mai pensato. Adesso bevo sempre anche io spremuta di mandarino. L'ultima volta che ci siamo visti è stato tre o - credo - quattro anni fa. Eric Andersen era venuto a Milano a suonare a una presentazione di una nostra rivista. Aveva insistito perché andassimo a trovarla. "Eric non la sento da tempo, so che è molto malata". Alla fine andammo, aveva cambiato abitazione, una coppia di ragazzi molto zen si prendevano cura di lei. Parlammo, ci salutammo, ci tenemmo la mano. I suoi grandi occhi sorridevano come sempre quando c'era uno dei suoi "amici americani". Ieri sera ho chiamato l'amico Jacksie per dirgli che la Nanda se n'era andata. C'era anche lui quell'ultima volta con me ed Eric. Mi ha detto che qualche giorno fa se n'è andato anche Francesco, era il chitarrista di Eric Andersen quando il cantautore si esibiva in Italia. L'avevo conosciuto due anni fa a un loro concerto a Bergamo. Si vedevano i segni della malattia, ma lui diceva di sentirsi bene. Invece è andato anche lui, in questo agosto che farà pure un caldo torrido e bastardo, ma dentro di me sento freddo, con tutti questi amici che se ne vanno. "Care stelle", come ha detto la mia amica Clara. Fossi stato bastardo nella mia vita oggi avrei una carriera. Invece sono sempre il solito sfigato, ma va bene così. Non ho una carriera, ma da ieri sera, ne sono certo, in questo grande meraviglioso cielo blu di agosto c'è una stella in più, e credo anche che, "al sicuro, in cielo" - safe in heaven dead come diceva il suo grande amico Jack Kerouac - ho una preghiera in più assicurata per la mia anima di peccatore. Nessuno mi aveva chiamato Dottor Vites. Nessuno, adesso, lo farà più. Paolo Vites

Una forza che sovrasta

20:24 / Pubblicato da Alessandro / commenti (2)

Avevo deciso di partecipare alla serata degli Amici di Simone a Lavagna.

Vado a prendere Alice a casa a Riva Trigoso e parcheggio sulla passeggiata mare..

Trovo lo stand in fondo alla via, vedo da lontano Ale che ci viene incontro, una macchia fucsia e tante bandane colorate..

Arrivo presso lo stand alcuni mi indicano dove trovare la t-shirt e le cose da fare… bene…ad un tratto però il buio..cosa mi succede? Entro nello stand il caldo mi assale, mi sento strozzare, vedo la gente intorno a me attiva e lieta, con una certezza…ma non mi sento bene..ah quale è il mio compito! Le domande mi assalgono, riprovo a ripercorrere con il pensiero ciò che è avvenuto, penso ad alcuni volti e a tutto ciò che ne è conseguito, Simone…è oggettivo, tutto davanti a me è vero, non può essere altrimenti, non ci sarebbe quella letizia o almeno una durata di quella letizia che si respira da un po’ di tempo da quando dopo la morte di Simone è iniziato il Miracolo..

Ma io?..Non sono parte anche io di questa cosa? Anche io c’ero, anche io ho visto l’origine da cui tutto è partito…

Rimango a tagliare in due i testaieu, precisa che quasi mi meraviglio, piena di obiezioni..le solite cose.. Che ci sto a fare? Non ho niente in comune nel quotidiano da farmi coinvolgere con queste persone..è difficile raccontarsi ciò che è l’esperienza del vivere, quello che il cuore desidera e ciò che ci sta accadendo a livello personale..

Simona però mi racconta la sua storia, l’avevo persa di vista per molto tempo…ed è un incontro che va al cuore..

C’ è anche la Anna con la quale ho avuto due momenti di grande compagnia a Milano....

Sto tornando a casa, una cosa mi è chiara..per niente al mondo vorrei perdere il rapporto con queste persone, tramite anche le obiezioni che mi creano, questi volti… e le cose che succedono..oltre il mio vivere limitato. E’ una forza che mi sovrasta e mi mette al tappeto.

In fondo io ci sono..e non per mia volontà...

Oggi sabato 15 agosto sto andando a Prato sopra la croce, non era programmato ma Roby, Ale, Anna, Simona, Francesco, Alice e Marti me l’hanno chiesto…Grazie

Silvia L.

Una barca che anela il mare

19:33 / Pubblicato da Alessandro / commenti (0)

Molte volte ho studiato la lapide che mi hanno scolpito: una barca con vele ammainate, in un porto. In realtà non è questa la mia destinazione ma la mia vita. Perchè l'amore mi si offrì e io mi ritrassi dal suo inganno; il dolore bussò alla mia porta, e io ebbi paura; l'ambizione mi chiamò, ma temettti gli imprevisti. Malgrado tutto avevo fame di un significato nella vita. E adesso so che bisogna alzar le vele e prendere i venti del destino, dovunque spingano la barca. Dare un senso alla vita può condurre alla follia ma una vita senza senso è la tortura, dell'inquietitudine e del vano desiderio è una barca che anela il mare eppure lo teme. ... quella linea d'orizzonte è come il mistero […] è una terra ignota, da cui deve arrivare a lui uno che porta una ricchezza inimmaginabile. Eppure il cuore, che non riesce a immaginare questa ricchezza, questa giustizia, questo amore, questa verità, questa felicità, il cuore che non riesce a immaginarla, ne ha però struggente bisogno. È da quell'orizzonte che deve venire. E, infatti, a un certo momento, appare un punto all'orizzonte, sulla linea dell'orizzonte: è questa barca. Questo barquiňo, che è un punto, diventa sempre più grande, sempre più grande […] finché si vede un uomo, il barcaiolo, seduto dentro. La barca si avvicina alla riva, attracca, e l'uomo che stava aspettando abbraccia l'uomo che arriva. Il cristianesimo nasce così, come l'uomo che aspetta, che abbraccia l'uomo che arriva dall'altrimenti enigmatico e prima ignoto orizzonte". L. Giussani - Realtà e giovinezza. La sfida Che la mia vita abbia il senso dell'inquietudine e sappia aspettare quell'uomo.

Un tipo strano (guida all'ascolto)

11:08 / Pubblicato da Alessandro / commenti (0)

1. La musica si ascolta rigorosamente da soli. E' il comunicarsi di una esperienza del cuore al cuore di un'altra esperienza. Altrimenti c'è sempre quello/a che salta fuori, "ma stasera poi ci facciamo 'na birra o anche sei?". No, non va bene, non si spezza il flusso comunicativo. Il moto dei pianeti potrebbe rovesciarsi. 2. La musica si ascolta alta, ma ognuno ha il suo volume adeguato. E' la voce di chi canta, quella che deve uscire con potenza. Nulla come una voce che canta spalanca il cuore. Per cui ci si adegua alla voce del cantante. 3. La musica non si ascolta da ubriachi o da "stupefatti". Magari va bene farlo a un concerto, o se si ascolta Ragged Glory di Neil Young. La musica deve ubriacare il cuore e basta. Se ubriacate il cervello, al cuore arriva poco o niente. Non si ascolta musica per andare fuori, ma per entrare dentro. 4. La musica non si deve ascoltare in cuffia. Cioè, certe volte è piacevole, ma la musica è un'onda d'urto che ti butta giù sul divano, ti sommerge ti ferisce ti lava ti strapazza ti impedisce di muovere dito. Anche di respirare, ma non per più di 30 secondi. Non va iniettata nel cervello attraverso le orecchie. Sempre che i vicini di casa non rompano le palle, ovvio. La musica va lasciata respirare, e tu con essa. 5. La musica si ascolta in macchina solo se ci si trova su strade semideserte, non c'è traffico, non ci sono semafori, rotonde e precedenza assortite che interrompano l'ascolto. E coglioni che cercano di superarti sulla destra. In macchina il volume deve essere alto, davvero alto. Non si deve sentire null'altro che la musica, ricordandosi ogni tanto di guardare nello specchietto retrovisore se è spuntata un'ambulanza o - peggio - una macchina della polizia. E' vietato ascoltare musica quando si guida in città. Il risultato è una schifezza snervante. 6. Un disco va ascoltato per intero, dalla prima all'ultima canzone. Se non ci si riesce, vuol dire che quel disco non valeva la pena. 7. Va bene però, a volte, ascoltare la stessa canzone e solo quella in rotazione anche per una settimana anche per un mese intero. Certe canzoni creano dipendenza e l'uomo, di natura, è un essere dipendente. 8. Se hai il cuore spezzato, ascolta solo canzoni tristi. Ascoltare brani gioiosi per cercare di affogare la tristezza è cercare di evadere dalla realtà. La musica è il reale che si esprime. (Naturalmente, tutte le grandi canzoni sono canzoni tristi. Anche Satisfaction degli Stones). 9. Viceversa, mettere su un disco triste mentre hai voglia di far casino, ballare o semplicemente vivere vibrazioni ottimiste, è semplicemente da pirla. (Naturalmente, tutte le grandi canzoni sono ottimiste. Finché sanno esprimere la promessa, altrimenti meglio cliccare turn off). 10. Ascoltare musica non interrompe la vita. La conduce piuttosto verso il suo bisogno ultimo. Chi ascolta musica di continuo è un tipo strano. E' uno a cui non basta niente. E' uno che ha il cuore ferito e desidera che esso sanguini per sempre. Paolo Vites