Luca, le caramelle e quella domanda a Dio

14:56 / Pubblicato da Alessandro / commenti (0)

26/05/2010 - In una classe arriva un ragazzo autistico. Tra crisi e pregiudizi, per tutti è una sfida ad aprirsi alla diversità. Fino alla scoperta che la sua vita era preziosa così com'era...
Luca era un ragazzo autistico di 14 anni. Si presentò il primo giorno di scuola accompagnato dai genitori e dall’educatore. Il suo inserimento in classe era stato adeguatamente preparato da uno stuolo di specialisti. Tutto sembrava pronto per accogliere la diversità che, per la prima volta, in quel luogo si presentava in una forma così grave.
Era stato detto che quel ragazzone dallo sguardo assente in realtà capiva tutto, ma l’impatto iniziale sembrava smentire gli esperti: emetteva suoni gutturali, non reagiva agli stimoli... Persino l’insegnante di sostegno aveva difficoltà a trovare il canale giusto per rapportarsi con lui. Eppure la mamma lo descriveva come un ragazzo attento a tutto ciò che accadeva intorno, capace di affezionarsi ma anche di odiare coloro dai quali si sentiva minacciato. A volte, la vivacità dei ragazzi scatenava crisi di nervi in Luca, che diventava capace di atti di violenza imprevisti: un giorno, durante la ricreazione, si avvicinò ad una ragazza che, voltandogli le spalle, dialogava con un’amica. Questa non fece neanche in tempo ad avvertirla, che già le robuste mani di Luca le stringevano la gola. Fermato dai presenti, cominciò ad essere guardato come una minaccia...
Da quel momento Luca fu considerato un pericolo per sé e per gli altri. E i tentativi di integrazione furono affidati alla buona volontà di qualche docente che ancora voleva credere che, dietro quell’apparenza, si nascondesse un cuore umano.
Gli anni passavano e Luca cresceva anche fisicamente, ma lo sguardo era sempre rabbuiato e assente. Le sue crisi diventavano di giorno in giorno più rischiose. Nessun insegnante di sostegno era riuscito a resistere più di un anno e i compagni lo evitavano, chiamandolo «handicappato». Tutti ormai lo temevano e questo l’aveva reso più triste ed aggressivo.
Un’insegnante, però, intuì che Luca a scuola non si sentiva amato: forse la madre e gli specialisti avevano ragione nel dire che capiva tutto, compresa l’ostilità nei suoi confronti. Cominciò con l’avvicinarlo chiamandolo per nome, accarezzandogli il viso e le mani, chiedendogli se gradiva una caramella: fu la svolta. Dopo qualche tempo era riuscita persino a farsi dire «Grazie» quando gli donava qualche ghiottoneria. Non solo, ma ormai otteneva da lui l’obbedienza: «Vieni vicino a me, non uscire dall’aula. Vuoi una caramella?». Era la parola magica. «Gra-zie», ripeteva in modo meccanico. Aveva iniziato a parlare. Pian piano, cominciò persino a rispondere all’appello: «Pre-sen-te».
L’ultimo anno di scuola, giunse un’ennesima insegnante di sostegno e per Luca e la sua famiglia fu un cambiamento ormai insperato. Era competente ed equilibrata, corpulenta e autorevole: perfetta per la patologia di Luca. La sua manualità andò perfezionandosi (dal disegno a piccoli lavori col traforo) e la sua autostima cresceva. Il volto divenne sempre più spesso sorridente. Ora in classe saltava ancora, ma di gioia, ed anche i compagni avevano imparato ad accettarlo come uno di loro. Luca cominciò ad usare il computer per comunicare, scrivendo lettere piene di affetto all’insegnate di sostegno. La fiducia si rimise in moto per i pochi docenti che si lasciarono mettere in discussione e che, vincendo i pregiudizi, iniziarono un nuovo percorso educativo.
Un giorno, l’insegnante che gli donava le caramelle domandò in classe: «Quali sono per voi i valori della vita?». Mentre gli studenti rispondevano, alla lavagna fu stilata una graduatoria: 1) l’amore; 2) l’amicizia; 3) la famiglia; 4) la salute; 5) i soldi... «E la scuola?», chiese l’insegnante, ricevendo per tutta risposta un coro di «Buuu...». Luca scriveva la sua risposta al computer, unica come lui: «Per me la cosa più importante è Dio, ma non capisco una cosa: se Lui è buono perché mi tiene imprigionato in questo corpo e non posso parlare e fare quello che fanno tutti i miei amici?». L’insegnante di sostegno, con gli occhi lucidi, gli chiese il permesso di leggerla alla classe. Da un cosiddetto handicappato, emergeva un’autocoscienza che pochi possedevano. Tanto bastò per far scendere un silenzio irreale. Quei ragazzi, che avevano amore, amicizia e salute, non avevano mai pensato Chi ringraziare. Luca, nel suo consapevole dolore, non rifiutava a Dio il primato nella sua vita, ma dialogava con Lui domandandogli: «Perché?». Proprio come un figlio con un padre amoroso e enigmatico.
In quel momento diventava maestro dei suoi stessi “maestri”, costringendoli ad interrogarsi su ciò che l’uomo vorrebbe evitare. Quelle due insegnanti erano testimoni che la vita di Luca era preziosa così com’era. E, grazie ad un misterioso disegno, l’avevano potuta incontrare ed amare.
Paola     (da Tracce.it)

Un abbraccio forte (grazie Mou)

21:09 / Pubblicato da Alessandro / commenti (1)

 Personaggi da milioni di euro che girano in un mondo ipocrita e finto, cazzate dette da entrambi, due personaggi "limite" in tutto. Forti nel bene e nel male. Che uomini però. Quando uno sa abbracciare cosi, a stringere l'anima, è quasi salvo.

Da un paese lontano (2)

21:32 / Pubblicato da Alessandro / commenti (1)


...dal nostro amico a Haiti..

                                                                   Haiti, 18/05/2010

Ciao come và?
Vi racconto un po' che cosa combiniamo....
Ci troviamo a lavorare nei campi del quartiere di Citè du Soleil, è la zona rossa, cioè la zona più pericolosa di Port-au-Prince, diciamo di tutta Haiti. Anche i caschi blu fanno fatica ad entrare.
Noi riusciamo ad entrare grazie al fatto che AVSI è da anni che lavora insieme alla popolazione di questo quartiere e molte delle persone lavorano con noi e ci permettono di essere costantemente informati dell’andamento, “dell’umore” del quartiere.
Un altra forza è il lavoro che facciamo e cosa facciamo con loro.... Noi lavoriamo su tre campi Park Boby, Place fierte e Bais Fontaine.
L’obbiettivo primo ovviamente è il controllo della malnutrizione materno infantile ma essendo gli unici sanitari direttamente su questi campi cerchiamo di rispondere anche alle esigenze immediate che si presentano, come il ferito, il vecchietto che fa fatica a respirare e tanto altro e poi magari cerchiamo di dirigerli all’ospedale più vicino, quello che sembra meglio, come dai Medici senza Frontiere o dai Camilliani.
Poi ci sono i ragazzi che lavorano sull’aspetto psicosociale e le scuole,  questo popolo ha proprio bisogno dell’educazione, manca di tutto e non per colpa del terremoto, è proprio evidente che la cosa dura da tempo, è il paese con il più tasso di corruzione, ha avuto più desapericidos rispetto alla popolazione, più di tutto il sud america messo assieme e nessuno ne ha mai parlato.
Per il resto la cosa che mi impressiona però è che l’esigenza di questo popolo è la stessa che ho io e che hanno tutti gli uomini :quella di essere voluti bene in maniera completamente gratuita senza chiedere niente in cambio. La cosa che mi colpisce è che mi si sono attaccate delle persone senza che apparentemente facessi niente, ma il fatto che mi presentassi e che non chiedessi niente in cambio e che avessi iniziato a tirare su una tenda con loro e obbedivo a quello che loro dicevano, questo li ha sconvolti ed ha colpito tantissimo anche me.
Come dice Carron negli Esercizi della Fraternità “Noi possiamo riconoscere senza spaventarci tutte le nostre esigenze soltanto se Cristo permane come un esperienza reale nel presente. Se l’io rinasce da un incontro, abbiamo bisogno della contemporaneità di Cristo nel presente per scoprire, per stare davanti a tutta la natura dell’io. Il metodo è sempre lo stesso: è Qualcosa che viene prima, non solo l’inizio, ma in ogni passo della strada. ...” Ecco mi si presenta cosi adesso improvvisamente e inaspettatamente come scoperta di me nel rapporto con Cristo che il primo ad avere bisogno di questo rapporto sono io.
La scoperta del lavoro e del silenzio come azione per andare a fondo di questo rapporto.

Ciao Giacomo

Intrattenersi col cielo

08:24 / Pubblicato da Alessandro / commenti (0)


“Osservate più spesso le stelle.
Quando avrete un peso nell’animo, guardate le stelle o l’azzurro del cielo. Quando vi sentirete tristi, quando vi offenderanno, … intrattenetevi … col cielo. Allora la vostra anima troverà la quiete”                                                        

                                                                   Pavel A. Florenskij


Citazione di Benedetto XVI domenica scorsa al Regina Coeli.

Da un paese lontano

15:15 / Pubblicato da Alessandro / commenti (1)






                                                             Haiti, 08/05/2010


Allora partiamo dall’inizio... quando è successo il terremoto una mia amica, pediatra e con anni di esperienza in Africa, mi è venuta a chiedere delle divise da sala operatoria perchè doveva partire per Haiti assieme ad un chirurgo anche lui con esperienza in Uganda. Allora mi sono detto: perchè loro che sono molto più grandi di me si sono mossi subito ed io no?

Allora parlando con un amico gli ho detto del mio desiderio di dare la disponibilità per Haiti, e lui mi ha detto “Perchè no?” , e da li è iniziato tutto, fare la domanda per il passaporto, capire cosa sarei andato a fare, ecc ecc, e poi l’affetto dei miei amici che mi hanno sostenuto, da quelli di S. Marta a quelli del lavoro e tanti altri tra cui anche quelli con cui ho fatto le scuole, proprio come voi, lì al Maria Luigia di Chiavari.

Allora la mattina del 23 di aprile sono partito alle otto da Milano Linate, e dopo un ora ero atterrato a Parigi per poi prendere l’aereo che mi avrebbe portato a Pointpitre un isolotto sotto Haiti, e poi in un oretta sono arrivato a Port au Prince capitale di Haiti. Totale 18 ore e mezza di viaggio ....

All’arrivo rimango particolarmente colpito da quello che vedo, macerie ovunque e tanta gente per strada che chiede l’elemosina o che vuole portarti le valigie per qualche dollaro.
Ci viene a prendere Edoardo un amico di AVSI che è gia ad Haiti da un anno e mezzo,  con un esperienza in Congo, ci fa salire in macchina guidata da Crispen, un haitiano, e ci accompagnano a casa. La casa è bella, nello stesso stabile abita gente di più nazioni che lavorano per l’ONU.

Passiamo i primi due giorni con gli amici già presenti ad Haiti da un pò di tempo e ci raccontano che tipo di lavoro ci aspetta, ci passano le consegne per il lavoro futuro.

Arriva il lunedi mattina e ci accompagnano al primo campo dei tre che vedremo e su cui lavoreremo tutte le settimane, arriviamo a Park Boby, chiamato cosi dal nome del proprietario del terreno.
Ci vengono incontro Vito e la Clotilde che sono i due medici già presenti da 15 giorni e ci accavalliamo. Veniamo presentati subito a tutto il personale sanitario dell’equipe della santè, come si dice qui, ed iniziamo subito a lavorare.

Il nostro lavoro consiste specialmente nella ricerca dei bambini  malnutriti, dar loro terapie contro la diarrea e la febbre, segnalare il caso e cercare di seguirlo anche nei giorni successivi. La situazione non è delle più belle e quindi il lavoro è molto difficile, ma la cosa che dobbiamo fare soprattutto è insegnare alle ragazze che lavorano con noi come poter notare questi casi e poterli seguire con attenzione.

Il mare è molto lontano da dove sono io e una curiosità: pur essendo un isola quasi nessuno del popolo haitiano sa nuotare, non hanno la cultura del pesce, una cosa strana... , purtroppo i delfini di cui mi chiedevate non sono riuscito ancora a vederli ma se riesco cerco di fare una foto e mandarvela.

Spero di essere riuscito a rispondere a tutte le vostre domande.... Continuate a pregare per questo popolo che ne ha tanto bisogno. Noi possiamo solo provare a prendercene cura e se pregate fate molto di più di me che sono venuto fin quà, e anzi date una grande mano a noi che siamo qua....

Ciao Giacomo

14:51 / Pubblicato da Alessandro / commenti (0)

Uno specchio basterà

19:38 / Pubblicato da Alessandro / commenti (3)

Brano della scrittrice americana Emma Bombeck, segnalatomi da un amico...



La maggior parte delle donne diventano madri accidentalmente, altre per scelta, altre ancora per passioni sociali ed a volte per abitudine. Quest'anno quasi centomila donne diventeranno madri di bambini con problemi particolari. Vi siete mai chiesti come vengono scelte le madri di bambini con problemi particolari?
In qualche maniera visualizzo Dio sospeso sopra la terra che seleziona i suoi strumenti per la diffusione con grande cura e deliberazione. Egli osserva ed istruisce i Suoi Angeli ad annotare in un registro gigante: "Paolo, Chiara; un figlio, santo patrono: Matteo", "Luca, Stefania; una figlia, santa patrona: Cecilia". Finalmente passa un nome ad un angelo, sorride e dice: "Darò a quella donna un figlio con problemi".
L'angelo è curioso. Perchè fai questo Dio? Lei è così felice".
"Esattamente". Risponde Dio. "Potrei dare a una donna che non conosce la gioia un figlio disabile? Sarebbe crudele".
"Ma ha pazienza?" chiede l'angelo.
"Non voglio che abbia troppa pazienza, altrimenti affogherà in un mare di autocommiserazione e di disperazione. Una volta superato lo shock e i  risentimenti saranno scivolati via, lei si rimboccherà le maniche. L'ho guardata, oggi. Ha quel sentimento di fierezza e di indipendenza. Dovrà insegnare al suo bambino a vivere nel suo mondo e non sarà facile".
"Ma Dio penso che lei non ti crederà più!"
Dio sorride. "Non importa, io posso sopportarlo. Sì, sì questa è perfetta. Lei ha abbastanza egoismo".
L'angelo boccheggia. "Egoismo? E cos'è una virtù?"
Dio accenna col capo. "Se lei non può separarsi dal suo bambino di quando in quando, non sopravvivrà mai. Sì benedirò quella donna con un figlio meno perfetto. Lei non lo comprende ancora, ma sarà invidiata. Non darà mai per scontata una parola detta, non considererà mai un passo ordinario. Quando il suo bambino la chiamerà mamma per la prima volta, sarà davanti ad un miracolo e saprà riconoscerlo! Le permetterò di vedere chiaramente le cose che vedo Io: ignoranza, crudeltà, pregiudizi e le permetterò di essere al di sopra di loro.
No, non sarà mai sola. Sarò al suo fianco ogni minuto di ogni giorno della sua vita, perchè lei sta facendo il mio lavoro come è certo che lei è qui al mio fianco".
"E qual è il suo santo patrono?" chiede l'angelo.
Dio sorride: "Uno specchio basterà"


La madre speciale Emma Bombeck     

Vittorino

18:03 / Pubblicato da Alessandro / commenti (0)

da Avvenire 28.4.2010


 Anche Vittorino, non doveva na­scere. Lo avevano condannato a morte una diagnosi errata – secondo cui sarebbe venuto al mondo con una malformazione cerebrale – e la scelta della sua mamma per l’abor­to ‘terapeutico’. Non doveva nascere, Vittorino, ma quel 27 febbraio del 1999 qualcuno si accorse che il piccolo re­spirava, e lottava per vivere.
  È quasi sera, l’ambulanza entra d’ur­genza al Policlinico San Matteo di Pa­via, meta la divisione di patologia neo­natale e terapia intensiva. Ai sanitari viene raccontato in fretta l’accaduto: quel ‘feto’, ‘abortito’, respira e si muove. Sono le parole della medicina, ma per i medici che le ascoltano, guar­dando le manine già ben disegnate del piccolo, suonano subito fuori luogo.
  Giorgio Rondini, all’epoca primario del reparto, ha ancora negli occhi il corpi­cino: «Era la prima volta in assoluto che ci capitava una cosa del genere – ri­corda il professore –. Il piccolo pesava appena 800 grammi, aveva forse 25 set­timane, più o meno 180 giorni di vita. E non aveva nessuno, era stato rifiuta­to dalla sua stessa mamma. Questo fat­to ci commosse subito, bastò un atti­mo perché ci sentissimo tutti genitori, e facessimo il nostro possibile per pro­teggerlo e salvargli la vita».
  L’équipe del San Matteo si concentra sul bimbo, 24 ore su 24: la culla termi­ca, la ventilazione artificiale, l’alimen­tazione tramite fleboclisi. I giorni pas­sano – cinque, dieci – e il piccolo con­tinua a respirare, lotta. Le infermiere portano carillon e pupazzetti, colora­no il muro dietro i macchinari, attac­cano ciondoli e campanelle. E gli dan­non no un nome, anche: scelgono ‘Vittori­no’, «forse non un gran che per un neo­nato d’oggi, ma lui aveva vinto la sua battaglia per la vita, e doveva vincere quella per la sopravvivenza – spiega Rondini –. Ci parve l’idea migliore».
  Intanto gli esami portano a una inco­raggiante, e insieme sconcertante, ve­rità: i medici cercano la malformazio­ne cerebrale di Vittorino, di cui a pri­ma vista non c’è traccia. La cercano e la trovano. Scoprono so­lo una piccola emorragia, un versamento che poteva simu­lare all’ecografia l’ipotesi di un idrocefalo (una malforma­zione che compromette lo svi­luppo del cervello), ma che può essere riassorbito con un piccolo intervento. Vittorino, rifiutato dalla madre perché creduto malato, è sano.
  I giorni continuano a passare, la storia del bimbo ‘adottato’ al San Matteo commuove tutti: il 16 marzo in ospe­dale arriva l’allora assessore ai Servizi sociali del Comune di Pavia, Sergio Contrini, con un’idea che piace subito a tutti: in accordo con il Tribunale dei minori di Milano, Contrini è pronto a diventare il tutore di Vittorino. «In que­sto modo – spiega lo stesso Contrini, oggi presidente dell’Azienda di servizi alla persona di Pavia – in tempi brevis­simi sarebbe stato possibile darlo in a­dozione ». Già, perché nel frattempo al­la storia di Vittorino si è interessata u­na coppia. Una coppia che gli assistenti sociali e lo stesso Tribunale trovano i­donea ad accogliere il piccolo, consi­derando la sua drammatica storia e le difficoltà che avrebbe dovuto affron­tare nei primi mesi di vita: «Li incon­trai di sfuggita – continua Contrini –, e­rano persone straordinarie».
  Vittorino cresce, si rafforza, arriva alle 30 settimane, le supera: al San Matteo non hanno più dubbi, il pericolo è scampato. «Ricordo ancora il giorno che arrivò l’ambulanza per portarlo via – ricorda Rondini –. Lo trasportarono in un ospedale di Milano, forse più vi­cino alla sua nuova famiglia. Oggi sap­piamo solo tramite gli assistenti so­ciali che sta bene, che ha compiuto da poco undici anni, che non sa e non sa­prà mai nulla della sua storia, o di noi». Di quei medici che hanno cre­duto nella sua vita, e lo chiamano an­cora Vittorino.

VIVIANA DALOISO