Un seme alla fonte del cuore

19:56 / Pubblicato da Alessandro / commenti (1)

Vecchie foto ripescate dal casino che alberga nei cassetti dove "un giorno metto tutto a posto". Anni '80, '84 per la precisione. Passata da poco la maturità. Che ricordi indelebili.
Ero, con tutta la mia generazione, vittima dello scetticismo. Una generazione disillusa, ormai dilaniata dallo svanire dei sogni. Forse all'istituto d'arte eravamo un po' indietro con i tempi. Una generazione ferita dal dubbio. Un'angoscia mi penetrava alla sorgente stessa del desiderio di vivere. Il tutto mascherato da un' esuberanza sciocca. Un'angoscia capace di forgiarmi in un essere scettico, cinico, incapace di farsi toccare da qualcosa di bello. La delusione totale dell'animo. Capita sempre, prima o poi, quando uno ha fede nell'uomo. Perchè crede nella forza trionfante della verità, della giustizia, del debole che vince il forte. Dell'amore e della carità, di tutto cio' che uno crede essere il bene.
Un'angoscia devastante a vent'anni.
Essa fu miracolosamente guarita, con gli anni, da quel seme che, gelosamente ed inconsapevolmente, conservavo dentro me. Un seme che qualcuno aveva posto delicatamente alla fonte del cuore. Seme nato da quel che avevo incontrato un giorno, anni prima. Incontrato con uno stupore quasi imbarazzante, mentre vedevo ragazzi come me, e anche più piccoli, più grandi, che erano felici, di poco o di tutto. E parlavano di Gesù. Che cosa fuori moda avevo pensato, ma ero felice per quell'incontro e ne andavo fiero anche davanti agli sberleffi dei "compagni" di scuola.
Quel periodo non l'ho più dimenticato: non si dimenticano le porte della morte. Almeno quelle dell'anima. Avrei accettato una vita dolorosa, non una vita assurda. Lottare per i poveri, i perseguitati, per il bene. Ricordo gli anni passati a fare "caritativa" con gli anziani, con i bambini, con i poveri. Tutte cose belle che mi avevano reso più "generoso e forte", ma mi ritrovavo, ad un certo punto, disperato.
Quel piccolo seme è rimasto una speranza, una porta aperta sul mio desiderio di felicità.
Un desiderio mai sopito. Il bello è sapere Chi ringraziare.
Spesso con il desiderio si risveglia la consapevolezza della mia miseria,  ma è così impellente che riesce a trasformare quella tangibile impotenza in un grido silenzioso.
Questo desiderio non è una morale. Cristo non è una morale, ma un fatto misteriosamente concreto, con cui fare i conti e lasciarsi abbracciare, da implorare e, se proprio deve accadere, bestemmiare, quando senti di non farcela. E' una rabbia che diventa preghiera. Dio non si è fatto carne per darci un manuale delle istruzioni per l'uso, non ha portato la pace ma la spada.
Che fastidio quel cristianesimo fatto di “valori” sociali e morali, senza mai chiamare Cristo con il suo nome. Non mi ha mai interessato. Il cristianesimo del moralismo  “coerente” è già sconfitto, non serve alla mia felicità, il mondo lo inghiotte in un boccone. C'è un'altro popolo di cristiani che non mira a salvarsi l’anima attraverso una condotta esemplare e  modi "rispettabili". Non mi sento dentro un popolo di "giusti" ma di miserevoli, biechi peccatori che hanno il cuore lieto per averLo incontrato.
Non è detto che ci si salvi ma la "strada verso casa" è un po' più illuminata.