I suoi grandi occhi passavano dal sorriso luminoso alle lacrime in pochi secondi. Guardavi gli occhi di Fernanda Pivano, la Nanda come la chiamavano gli amici, e pensavi: questi sono occhi che hanno incrociato quelli di Cesare Pavese. E di Ernst Hemingway. E di centinaia di altri protagonisti della letteratura del ventesimo secolo. Faceva impressione che questa piccola donna avesse condiviso lavoro, gioie e dolori con tutti questi giganti. Che lei aveva amato profondamente perché amava profondamente la letteratura. Sempre alla ricerca di un nuovo scrittore, di un nuovo amore a cui dedicare notti di lettura. E dopo averlo conosciuto e amato lei, ce lo faceva conoscere ed amare anche a noi. Ha attraversato tutta la seconda metà del secolo scorso con il fuoco della letteratura che le bruciava dentro, da quando aveva avuto come insegnante proprio Cesare Pavese poco prima dello scoppio della Seconda guerra mondiale. Nel 1943 arriva la sua prima traduzione, quella dell'Antologia di Spoon River e con essa l'inizio di un patto di ferro con il mondo degli scrittori americani. Oggi si può dire, magari scatenando le ire di qualcuno, che la Nanda non fosse proprio una grande traduttrice. Anche il celeberrimo Sulla strada di Jack Kerouac non fu reso in italiano da lei come avrebbe meritato. Quando si andava a cena con lei con qualcuno dei suoi “amici americani”, questi si stupivano di come avesse potuto affrontare tante traduzioni lei che l'inglese non lo masticava proprio bene. Ma non era questo il punto. Più che una traduttrice o una scrittrice, Fernanda Pivano è stata commossa partecipe di uno dei periodi più rigogliosi della storia della letteratura americana, in cui si è infilata senza paura, condividendo amicizie e facendosi carico di proporre questi scrittori a editori di casa nostra che naturalmente giudicavano queste opere perdite di tempo. Lei ci ha rimesso tempo, soldi e salute, ma alla fine ha dimostrato che aveva ragione lei. Anche se traduzioni migliori sono arrivate poi. C'è una foto bellissima che testimonia più di tante parole chi è stata questa piccola grande donna. Sul finire degli anni 60 il poeta americano Allen Ginsberg venne in Italia per alcuni reading. Andò a trovare la sua amica Nanda – che conosceva sin dagli anni 50 – che villeggiava come suo solito a Santa Margherita Ligure. Saputo che in quei giorni ci si trovava anche il grande poeta e scrittore Ezra Pound, le chiese di farglielo incontrare. A Ginsberg, come a tanti americani, non importava nulla dell'ostracismo in cui, per ideologici motivi era stato posto Pound. Importava solo la bellezza delle sue parole. La foto, scattata a Portofino, tempio della mondanità, ritrae Ginsberg, con il suo look del periodo, cioè da hippie, totalmente fuori contesto nel luogo dove si trovavano; la Pivano, sorridente come sempre, ed Ezra Pound con l'aria annoiata di chi vorrebbe essere altrove. Ma è uno scatto formidabile che mette insieme storie culturali e umane diversissime, incroci letterari che hanno reso grande il Ventesimo secolo. Storie di cui spesso la Pivano è stato il collante e il testimone. Come quando portò, nel 1968, un ormai alcolizzato e vicino alla morte Jack Kerouac per una intervista televisiva alla Rai. Un documento doloroso, dove una delle menti più brillanti della letteratura americana ha ormai dato il suo addio, con la Nanda che tenta l'impossibile per tirare fuori una parvenza di intervista. Una generazione di “maledetti” che si erano arresi alla vita, quegli scrittori beat. Lei scherzando diceva: “Facevano sesso, si drogavano davanti ai miei occhi. Ma io non ho mai fatto niente, non mi sono mai drogata né ho fatto l'amore con loro. Che stupida che ero”. A lei bastavano i libri e la loro amicizia. Nel 1965 conobbe Bob Dylan: da donna intelligente aveva capito che la nuova letteratura americana si era travasata da sola nella nuova canzone rock. Fu a Berkeley, in uno dei primi concerti in cui l'ex paladino della canzone di protesta indossava i panni del rocker anfetaminico. Berkeley, avamposto della controcultura rivoluzionaria, fu l'unica città americana dove Bob Dylan non venne fischiato dal pubblico per quella che la sinistra ortodossa giudicava una scelta commerciale. Dopo il concerto andò a cena con lui e Ginsberg. Da allora, la Pivano cercò di rivederlo più volte ma con scarsa fortuna. Dylan era ormai inavvicinabile, e lei ci piangeva sopra. Ma continuava a dedicargli affettuose parole. Negli ultimi anni della sua vita, la Nanda era tornata alla ribalta grazie alla sua riscoperta operata da cantautori di casa nostra, magari più in cerca di una sponsorizzazione che di una vera passione e conoscenza della persona. Per tutti gli anni 80 e i primi 90 infatti in Italia nessuno si era più ricordato di lei. Adesso era tutta una corsa per averla addirittura ospite su qualche disco. Probabilmente il ricordo più bello e sincero è quello operato dal regista Luca Facchini nel suo recente film documentario “Fernanda Pivano, a farewell to Beat”,opera in cui era il regista era riuscito a riportare, dopo tanti anni, la Pivano in America, a dare un ultimo saluto alle tombe dei suoi amici americani. Spesso i suoi grandi occhi neri si riempivano di lacrime. Nel sogno pace & amore degli anni 60 lei ci aveva creduto, ma lo aveva visto sfumare nel nulla. Si consolava con l'amicizia di nuovi eroi, come Lou Reed, il rocker newyorchese che negli ultimi anni la andava a trovare spesso. Una volta, tanti anni fa, mi telefonò a casa a mezzanotte, l'ora in cui lei cominciava a lavorare. “Dottor Vites” mi disse. Nessuno mi aveva mai chiamato così. “Ho letto le sue cose. Ma lei cosa vuole che io faccia per lei?”. Nulla, è già tanto che lei abbia letto le mie cose. “Che strano. Lei è il primo che non mi chiede qualcosa in cambio, lo fanno tutti”. Forse perché non le ho mai chiesto nulla che quella notte nacque un'amicizia semplice e bella. Erano tempi, inizio anni 90, che della Nanda si erano dimenticati tutti. Non era ancora scattato quel meccanismo di sponsorizzazione che avrebbe accompagnato i suoi ultimi anni, quando personaggi che non avevano mai avuto nulla a che fare con lei e con il suo mondo facevano a gara per averla sul palco o sui loro libri. Lei era davvero sola in quei giorni, e malata. Andavo nella sua casa in via Senato a Milano, rigorosamente dopo le 8 di sera, una casa grande e buia, piena di pile di libri disordinati ovunque, anche sulle seggiole. Non sapevi mai dove sederti. Una infermiera se ne andava e lei compariva, piegata sul suo bastone. Piangeva, tanto. Nessuno mi cerca più. Mi lasciava frugare nei suoi armadi, tra i libri. Roba da far paura: gli originali del San Francisco Chronicle, libri con dediche di Hemingway. Mi permetteva di prendere quello che volevo, per fotocopiarmeli. Il romanzo autografo mai finito di Neal Cassady. Fossi stato lo stronzo che non sono mai riuscito ad essere avrei potuto sparire con quel ben di dio, farci dei soldi e magari anche una carriera. Dopo andavamo a cena in Corso Venezia, un bel ristorante dove era accolta come una principessa. E finalmente la Nanda sorrideva. Prendeva sempre a fine cena una spremuta di mandarino. Non ci avevo mai pensato. Adesso bevo sempre anche io spremuta di mandarino. L'ultima volta che ci siamo visti è stato tre o - credo - quattro anni fa. Eric Andersen era venuto a Milano a suonare a una presentazione di una nostra rivista. Aveva insistito perché andassimo a trovarla. "Eric non la sento da tempo, so che è molto malata". Alla fine andammo, aveva cambiato abitazione, una coppia di ragazzi molto zen si prendevano cura di lei. Parlammo, ci salutammo, ci tenemmo la mano. I suoi grandi occhi sorridevano come sempre quando c'era uno dei suoi "amici americani". Ieri sera ho chiamato l'amico Jacksie per dirgli che la Nanda se n'era andata. C'era anche lui quell'ultima volta con me ed Eric. Mi ha detto che qualche giorno fa se n'è andato anche Francesco, era il chitarrista di Eric Andersen quando il cantautore si esibiva in Italia. L'avevo conosciuto due anni fa a un loro concerto a Bergamo. Si vedevano i segni della malattia, ma lui diceva di sentirsi bene. Invece è andato anche lui, in questo agosto che farà pure un caldo torrido e bastardo, ma dentro di me sento freddo, con tutti questi amici che se ne vanno. "Care stelle", come ha detto la mia amica Clara. Fossi stato bastardo nella mia vita oggi avrei una carriera. Invece sono sempre il solito sfigato, ma va bene così. Non ho una carriera, ma da ieri sera, ne sono certo, in questo grande meraviglioso cielo blu di agosto c'è una stella in più, e credo anche che, "al sicuro, in cielo" - safe in heaven dead come diceva il suo grande amico Jack Kerouac - ho una preghiera in più assicurata per la mia anima di peccatore. Nessuno mi aveva chiamato Dottor Vites. Nessuno, adesso, lo farà più. Paolo Vites
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