Quella nostalgia verso l'infinito

15:20 / Pubblicato da Paolo Vites / commenti (0)

"C’è una frase di Dostoevskij che mi accompagna in questi tempi, dovendo parlare del cristianesimo alle persone più diverse in Italia e all’estero: «Un uomo colto, un europeo dei nostri giorni può credere, credere proprio, alla divinità del figlio di Dio, Gesù Cristo?». Questa domanda suona come una sfida a ciascuno di noi. È precisamente dalla risposta ad essa che dipende la possibilità di successo della fede oggi. In un discorso del 1996, l’allora cardinale Ratzinger rispose che la fede può sperare questo «perché essa trova corrispondenza nella natura dell’uomo. Nell’uomo vi è un’inestinguibile aspirazione nostalgica verso l’infinito». E con ciò indicava anche la condizione necessaria: che il cristianesimo ha bisogno di trovare l’uomo che vibra in ciascuno di noi per mostrare tutta la portata della sua pretesa......... Continua qui: http://www.ilsussidiario.net/News/Cronaca/2009/12/24/NATALE-Julian-Carron-quella-nostalgia-verso-l-infinito/57584/

Bella gente d'Appennino

10:20 / Pubblicato da Paolo Vites / commenti (0)

"E’ il Santo Natale: dovere dei cristiani non è essere buoni,categoria morale alquanto confusa, ma piegare le ginocchia in adorazione di fronte al mistero della vita, della salvezza: l’Incarnazione". Giovanni Lindo Ferretti

Regali di Natale

13:39 / Pubblicato da Paolo Vites / commenti (0)

“Adesso che sta per arrivare Natale le statuine del presepio si risvegliano…” Alcuni giorni prima della morte di Claudio Chieffo, Arcadio Lobato va a trovarlo in ospedale. Sul suo comodino, mette un volto di Gesù, fatto a matita da lui. Sopra c’è scritto: “A Claudio, che mi ha portato a Gesù”. Spagnolo, da anni residente in Italia, illustratore specializzato in libri per ragazzi (il suo “La valle nella nebbia”è stato scelto fra le 100 migliori opere di letteratura spagnola per ragazzi del Ventesimo secolo), Arcadio aveva conosciuto Chieffo nel 2001. Ne era nata una amicizia profonda e discreta. Per questo, al momento di pensare un libro illustrato che fosse anche una strenna natalizia, la famiglia del cantautore scomparso ha pensato subito a lui. "La notte che ho visto le stelle" è un libro con 14 tavole a colori che raccontano alcune canzoni di Chieffo. Per bambini, ma ovviamente non solo. Il CD che è allegato al libro contiene le 14 canzoni illustrate da Lobato, grandi classici del cantautore romagnolo, ma la particolarità è che sono quasi tutte registrazioni fatte nel suo studio casalingo, in totale solitudine. La voce, la sua grande voce, in nudità, che apre uno squarcio nella intimità, nel momento in cui queste bellissime canzoni venivano composte. Adesso quei momenti in cui il genio si confessava davanti al Suo creatore appartengono a tutti. Compresa l'ultima registrazione effettuata prima della morte, il 6 giugno 2006; Stella del mattino, a cui sono state aggiunte parti di organo e le voci del Coro San Filippo Neri di Forlì. Perché i grandi uomini che hanno incrociato le nostre strade sono impossibili da dimenticare. http://www.galbost.com/modules.php?op=modload&name=catalogo&file=index&mcat=all&artid=399

Da quel nodo stecchito nascerà l'iris

16:36 / Pubblicato da Alessandro / commenti (1)


Tre di dicembre. Giorno di autunno profondo. Sotto al cielo basso già alle quattro e mezza viene buio. Nell’aria che sa di pioggia la gente va in fretta. Siamo tutti pallidi, ingrigiti nelle giacche scure; e scure o nere le macchine, e l’asfalto, che alle prime gocce luccica sotto alla luce fredda dei lampioni. Tutte le gradazioni del grigio, dal ghiaccio al piombo, in questa Milano di dicembre; neanche un colore vivo. Il giallo ardente dei girasoli in campagna, lo smeraldo del mare in Sardegna, questa estate: possibile? Probabilmente hai sognato.
E mentre cammino col cane – infreddolito anche lui, e con le orecchie basse – passo davanti a un vivaio. Non è tempo di fiori, scuote la testa severa la parte saggia di me, e fa per andare oltre. Ma un’idea mi accende; entro, decisa. Oltre le schiere di abeti di Natale. So dove andare. Avranno bene dei bulbi. È questo, se mi ricordo bene, il momento.
Ecco qui. Come sono miseri: magre cipolle che rifiuteresti al mercato. Duri, secchi, bitorzoluti. (Non ha apparenza, il seme. Non seduce. Deve solo scendere nella terra e morire). Poi, ad aprile, ma i crocus già a marzo, nelle aiuole ancora spoglie spunteranno i primi germogli. Eccole nelle foto sui sacchetti, le promesse di aprile. Sgargianti, raggianti di tutti i rosa e i viola. Gli iris alteri, e i narcisi, e i tulipani con la corolla chiusa come una rocca: color giallo sole, o di un fucsia abbagliante, che in questo giorno buio sembra una promessa tanto audace da fare sorridere, come la smargiassata di un bambino. Via, come è possibile credere, sotto a questo cielo di piombo, che da un nodo stecchito verrà un simile fiore? E i giacinti? Quelle infiorescenze minute, da mano d’orafo, come stanno dentro a questi bulbi cinerei?
Eppure. Ragionevole è crederci: accade tutte le primavere. Ragionevole è, sotto a questo cielo di acciaio, credere che puntualmente fioriranno gli iris candidi e regali. Ne metto nel carrello a manciate, avidamente. Tulipani di fuoco, e narcisi. E crocus, che sono i primi a fiorire, i primi ad annunciare. Poi realizzo che ne ho presi troppi. A malincuore ne scarto un po’ – come i bambini a quei banchi del mercato con le caramelle di gomma colorate. Comunque, è un bel malloppo quello che mi porto a casa, golosa come di un bottino. Occorre scavare nella terra nera. Piccole buche discretamente profonde. Umido e freddo il terriccio sotto le dita; non è una cuccia, piuttosto una fossa. I bulbi così poveri e brutti, qualcuno con un’avventata punta verde di germe spuntata anzitempo. Il cane li annusa e li abbandona, deluso: cipolle, pare dire, roba incommestibile. «Vedrai come saranno belli», spiego ai suoi innocenti occhi nocciola. I cani non capiscono. E anche gli uomini capiscono a fatica. Perché è strano: occorre scendere nella terra morta, nei giorni più bui, perché rinasca ciò che è più bello. Perché una mattina d’aprile si apra la corolla dell’iris regale. E quel lontano giorno di dicembre sembri un sogno. E quel fiorire, un miracolo.
Marina Corradi (da Tempi)


La strada verso casa

10:27 / Pubblicato da Paolo Vites / commenti (3)


"Spettacolo di serata, tra lo splendore della piazza e di amicizie vecchie e nuove e l'incontro con storie incredibili. Grazie a te e ai tuoi amici". L'sms di Giorgio, il leader degli ShamRock, meneghina irish band che si è esibita durante la giornata dedicata alle Tende dell'AVSI a Chiavari, mi giunge questa mattina presto. Uno spettacolo di serata, davvero. Un anno fa più o meno davo alle stampe una sorta di libretto autobiografico che sottointitolavo "La strada verso casa". Pensavo di aver raggiunto una meta, di raccontare dove fossi arrivato. A casa. Un anno dopo mi rendo conto che la strada è ancora tutta davanti a me, che di cose in questo anno ne sono successe a scatafascio. Di tutto e di più, e che se la casa, la meta, appare sempre più chiara, non si finisce mai di camminare. Ogni giorno si riparte da capo. Era evidente ieri, in Piazza Mazzini, a Chiavari, osservando tutto quel via vai un po' caotico di persone che facevano la spola tra i portici addobbati e lo shopping natalizio, tra una tazza di cioccolato e una canzone dal palco che, ovviamente, aveva dentro la nostalgia tutta irlandese di casa. Amici vecchi e nuovi. Storie incredibili. Quello che fa alzare lo sguardo è sempre qualcosa di inaspettato, lungi dalle preoccupazioni ansiolitiche riguardo a quello che si è organizzato, proposto. Il gesto. Quello che fa alzare lo sguardo è vedere invece uno degli amici carcerati, che si sono dati da fare a preparare ottime torte il cui ricavato andrà a sostengo dell'Associazione Amici di Simone, aggirarsi con un sorriso inarrestabile in mezzo ai passanti invitandoli a comprarne una. E' contento, e si vede. E soprattutto si muove, si sta muovendo, incontra le persone. In quel momento è sulla strada, la sua, verso casa. Oppure qualcuno che di sua iniziativa prende su un pacco di Buone Notizie, il giornale di informazione dell'AVSI, e si butta nella folla a proporle, "le buone notizie". Anche lui si sta muovendo verso la sua strada verso casa, invitando altri a incamminarsi. In fondo lo diceva già Sant'Agostino, di quanto siamo distratti da noi stessi: "Le persone viaggiano per stupirsi delle montagne, dei mari, dei fiumi, delle stelle; e passano accanto a se stessi senza meravigliarsi". Intanto la musica irlandese sale nell'aria fredda, ma tersa, della sera. Musica che rimanda alla casa da raggiungere. Mi diceva Francesco De Gregori, una delle "cose innaspettate" di questo anno tutto in cammino, qualche giorno fa: "Ci vediamo sulla strada, che ne siamo degni". Non tutti ne sono degni. Ne sono degni quelli che lasciano aperta la ferita, perché è da lì che passa la luce. Sulla strada si compie il destino, non importa essere buoni o sempre fedeli. Si inciampa, ci si alza e si ricomincia. Ce lo hanno insegnato ieri gli amici carcerati di Chiavari. In questo splendore di piazza, tra amicizie vecchie e nuove. Buon cammino, buon Natale.




  









Adeste Fideles

16:18 / Pubblicato da Alessandro / commenti (1)


Beh, mi commuovo facilmente. Sono anche un frignone, a volte. E sentire cantare, buona parte in latino, questo pezzo del '700 da un  uomo di quasi settant'anni, mi ridesta emozioni forti. E in macchina, oramai l'unico luogo dove trovo spazio per l'ascolto, la risento due, tre, dieci volte.  
Ci sono canzoni che mi "attraversano" più di altre. Sono le canzoni che amo di piu’. Che danno un piacere viscerale quando permetti a quelle note di penetrarti.



Cerco l'etimologia di "commozione" e trovo il significato: -violenta scossa al cervello, stato dell'animo perturbato- muoversi per qualcosa -. Mi piace questa definizione. Ho sempre creduto che commuoversi volesse dire intenerirsi per qualcosa o farsi toccare l'animo da qualcosa. "Stato dell'animo perturbato", mi è sempre piaciuto sentirmi "perturbato". Quando sono troppo tranquillo c'è sempre qualcosa che non va, il mio -io- è in stand-by. "Muoversi per qualcosa". Anche una banale canzone puo' contribuire a farmi muovere. Mica è cosa da poco. Quante volte, quando vado a lavorare in macchina, sparo su dei pezzi storici ed è come se ridestassero la mia anima? E lavoro anche meglio...
Grazie caro vecchio Bob per questi pezzi che fanno sorridere solo chi è imbottito della perfezione, della "pulizia" delle canzoni d'oggi. Quelle senz'anima. E anche se queste sono cover, tu le canti "cercando qualcosa di Dio" come è sempre stato. E quelle note portano "qualcosa di Dio" anche al mio cuore.

« Adeste fideles læti triumphantes,
venite, venite in Bethlehem.
Natum videte Regem angelorum.
Venite adoremus (ter)
Dominum. En grege relicto humiles ad cunas,
vocati pastores adproperant,
et nos ovanti gradu festinemus.
Venite adoremus (ter)
Dominum.
Æterni Parentis splendorem æternum,
velatum sub carne videbimus,
Deum infantem pannis involutum.
Venite adoremus (ter)
Dominum.
Pro nobis egenum et fœno cubantem
piis foveamus amplexibus;
sic nos amantem quis non redamaret?
Venite adoremus (ter)
Dominum. »

La Bellezza

17:06 / Pubblicato da Paolo Vites / commenti (1)

BENEDETTO XVI ,,UDIENZA GENERALE,,Aula Paolo VI,,Mercoledì, 18 novembre 2009: ...Che cos’è la bellezza, che scrittori, poeti, musicisti, artisti contemplano e traducono nel loro linguaggio, se non il riflesso dello splendore del Verbo eterno fatto carne? Afferma sant’Agostino: “Interroga la bellezza della terra, interroga la bellezza del mare, interroga la bellezza dell’aria diffusa e soffusa. Interroga la bellezza del cielo, interroga l’ordine delle stelle, interroga il sole, che col suo splendore rischiara il giorno; interroga la luna, che col suo chiarore modera le tenebre della notte. Interroga le fiere che si muovono nell'acqua, che camminano sulla terra, che volano nell'aria: anime che si nascondono, corpi che si mostrano; visibile che si fa guidare, invisibile che guida. Interrogali! Tutti ti risponderanno: Guardaci: siamo belli! La loro bellezza li fa conoscere. Questa bellezza mutevole chi l’ha creata, se non la Bellezza Immutabile?”

Miracolo a Milano

15:16 / Pubblicato da Paolo Vites / commenti (1)

Questo video rende solo parzialmente giustizia. Bisognava esserci. In Piazza Duca d'Aosta a Milano, per intenderci quella della Stazione Centrale e del Pirellone, uno dei luoghi più caotici, sporchi, pericolosi, da paura insomma, di una città che fa già paura e che di umano ha sempre meno. Aspettavo un amico che doveva arrivare in stazione. Mentre camminavo vedevo gente, di tutti i tipi, il marocchino, il barbone homeless, l'albanese in stracci, la ragazza in elegante vestito da carriera, il taxista, lo studente squattrinato, il top manager, insomma tutta l'umanità che a Milano ti corre sempre accanto con fastidio e di fretta. Tutti con il naso all'insù. Mica uno o due, centinaia di persone bloccate in un quadro surreale. Come se il tempo non esistesse più. Nessuno che correva più. Sembrava una scena di Miracolo a Milano, e l'ambientazione ci stava pure. Molti avevano tirato fuori l'ormai usulae iphone o la telecamerina e filmavano e fotografavano. Che succedeva? L'invasione degli ultra corpi? Aerei suicidi come già tristemente successo proprio qui, sul Pirellone? L'apocalisse? No. E' che tutti, me compresi, si erano dimenticati delle loro urgenze e di sé stessi per ammirare uno spettacolare volo di migliaia di rondini, in stormi diversi che si incrociavano fra loro e disegnavano incredibili geometrie nel cielo. E seppur migliaia nessuno si scontrava con l'altro, si incastravano a perfezione come se seguissero rotte certe solo a loro stessi, senza timore alcuno, rotte disegnate per loro da qualcun altro. Uno si trova a pensare: aeroplani costruiti dai più ingegnosi geni umani non saprebbero fare altrettanto. Si schiantaterebbero, anche due o tre e non migliaia come in questo caso, fra di loro. La natura invece ha più conoscenza della realtà di qualunque genio umano. Due: vedere centinaia di persone, anche se per pochi istanti, ferme a guardare in alto, a guardare su, a guardare oltre se stessi con stupore, è miracolo, è segno di trascendenza. Miracolo a Milano. La mostra misura è spazzata via da qualcosa che si impone. Qualcosa oltre a noi, qualcosa che fa guardare oltre. Qualcosa che sta lassù e a cui aneliamo, qualcosa che ci riempie di semplice bellezza, anche se per pochi minuti, nella brutta Piazza Duca d'Aosta di una grigia e minacciosa Milano.

Sign on the Cross

14:20 / Pubblicato da Paolo Vites / commenti (0)

“Il crocifisso non genera nessuna discriminazione. Tace. È l’immagine della rivoluzione cristiana, che ha sparso per il mondo l’idea dell’uguaglianza fra gli uomini fino ad allora assente… Perché mai dovrebbero sentirsene offesi gli scolari ebrei? Cristo non era forse un ebreo e un perseguitato morto nel martirio come milioni di ebrei nei lager? Nessuno prima di lui aveva mai detto che gli uomini sono tutti uguali e fratelli. A me sembra un bene che i bambini, i ragazzi lo sappiano fin dai banchi di scuola”. Natalia Ginzburg. Ebrea. Atea.

Uno sguardo particolare

18:26 / Pubblicato da Alessandro / commenti (1)

Mattinata grigia. Come il mio umore. E il lavoro oggi mi porta nel più grande ospedale di questa grande città del nord. Io e il mio capo. Due che sembrano uscire dal vicino reparto psichiatrico a vederli cosi in volto. Invece siamo qui a cercare una ragazzina scomparsa. Gli ultimi segnali la danno presente in zona. Come già avvenuto, la cerchiamo nel reparto morte. Così chiamo quell'antro dove 4-5 bimbi abortiti ogni giorno non vedranno luce. 4 o 5 cinque cuori che cessano di battere con l'ausilio di qualche ferro chirurgico.
Ero già stato qui e non volevo tornarci. Ma oggi è andata così. Cerchiamo, con discrezione, questa piccola adolescente. Stanza per stanza, perchè l'ottima legge sulla privacy in questo reparto cancella anche i nomi. In ogni camera un volto spaurito che subito ti fissa interrogativo. Mamme, o quasi mamme, troppo giovani.  A volte, accanto al letto, spunta anche un fidanzato bambino. Vorrei gridare qualcosa ma sento soltanto l'evidenza del mio stomaco chiuso. Fa male. Vorrei uscire subito da qui, la ragazza che cerchiamo non c'è, ma il mio capo s'attarda. Si fa strada solo una preghiera arrabbiata, implorante. Tu Cristo salvi tutto. E' un'evidenza. Usi tutte le nostre miserie, non Ti fermi ai nostri limiti, vero? Abbraccia forte questi tuoi figli oggi. Io ne ho estremo bisogno. Il capo parla con quello che qui dentro è lo Stakanov di queste pratiche chirurgiche. Lo sento lamentarsi del troppo "lavoro" sulle sue spalle, mentre parla si coglie chiaramente il gusto occulto di sentirsi più bravo degli altri. Ci congediamo. Io mi volto senza stringergli la mano protesa. Non ce la faccio, sono il solito moralista, fariseo bastardo. Gesu' pensaci tu. Io voglio solo uscire in fretta da questo posto. Nel vialone ascolto in sottofondo il capo che stigmatizza il mio comportamento. Non mi interessa ora, poi gli parlerò. Vorrei tornare indietro ed abbracciare quelle mamme una ad una. Vorrei dirgli che io non sono meglio di loro. Che la vita è un dono "inevitabile", che viviamo tutti nell'attesa, sin dal caldo della pancia di nostra madre. Attendiamo tutti di essere abbracciati ed amati. Vorrei dirgli di usare la libertà per dire si a quello che in quel reparto asettico chiamano feto. Ed è invece un dono bellissimo anche se adesso non vi sembra tale. Vorrei...

Maria, quel gusto di vita nuova donatomi, e che troppo spesso soffoco con il mio male, sia per tutti. Oggi abbi uno sguardo particolare  qui, in questa grande città del nord.

Trenta anni fa, oggi

19:02 / Pubblicato da Paolo Vites / commenti (3)

Oggi, festa di San Fortunato. Con alcuni amici qualche sera fa ci siamo trovati a mettere insieme vecchie foto ingiallite dal tempo, frasi, ricordi. Abbiamo messo su una piccola mostra per ricordare Don Giorgio, che se n'è andato da questo mondo il 19 ottobre. Per ricordare non solo lui in realtà, ma quel popolo che dall'amicizia con lui è nato ed è cresciuto. La mostra l'abbiamo portata giù alla festa di San Fortunato, che è anche la festa della parrocchia in cui io mi sono ritrovato quando sono venuto a vivere a Milano, e di cui Don Giorgio fu vice parroco dal 1970 al 1984. Trenta anni fa esatti,il giorno prima della festa di San Fortunato del 1979, con altri due amici di cui ho perso le traccia da un sacco di anni, prendevo il treno da Chiavari, la mia città, per andare a Milano per la prima volta. Mia sorella mi aveva invitato a partecipare alla festa di San Fortunato o meglio, la festa della Fontana, come era diventata famosa. La Fontana, la comunità che mi avrebbe accolto qualche anno dopo a Milano. Era un evento, quella festa, di cui si parlava in tutta Milano e anche oltre, grazie allo spirito con cui alcuni di quella comunità avevano creato un formidabile luogo di incontro. Ci partecipavano migliaia di persone. Quella sera di quel freddo giorno di 30 anni fa, dopo i vespri, mi presentarono quel sacerdote, Don Giorgio. Corpulento, aggressivo, la stretta di mano incandescente. Mi sono sempre trovato in difficoltà davanti ai preti: mi hanno sempre dato l'impressione di vederti attraverso, di conoscere e sapere in partenza tutto di te, anche le balle che invece ad amici, fidanzate, mogli sappiano contare su così bene. Naturalmente non è così e non mi succede con tutti i preti, ma con lui fu così dal primo istante. Così come mi è sempre successo con Don Pino. Conosciuti e voluti bene a prescindere. Tre o quattro anni dopo la mia vita sarebbe diventata quella della comunità della Fontana. Ma Don Giorgio se ne stava andando, chiamato a fare il rettore di una nuova scuola che stava nascendo proprio in quei giorni,il Sacro Cuore. Così che io a lui non l'ho mai frequentato molto. Qualche incontro fugace, lui quasi sempre su di un palco a parlare, oppure dopo una partita a pallone in cui ci guardava giocare e ci dava dei coglioni buoni a nulla, lui che se non fosse stato per un incidente di gioco da ragazzo stava per essere chiamato in serie A. E darti del coglione era per lui dirti che ti voleva bene. Lui era fatto così.Quanta gente ha fatto incazzare. Ma ti costringerva sempre al confronto. Rimase la guida spirituale della nostra comunità, e quando con un paio di amici decidemmo che era l'ora di mettere su un gruppo di fraternità, andammo da lui a chiedere il suo parere. Ci diede l'ok,eravamo tutti sul punto di sposarci, era l'ora disse lui. Poi volle incontrarci tutti , una sera. Ci disse poche parole, franche e realiste come sempre. "Mica vi mettete insieme a fare la fraternità per chissà cosa, se non Gesù Cristo. Mica vi state sposando per chissà cosa. Fra tre mesi vostra moglie comincerà a lamentarsi che vi puzzano i piedi, cosa pensate che sia il matrimonio". Ecco, lui era così. Niente balle, niente sentimentalismo. Mica ti vai a sposare perché hai trovato il grande amore della tua vita, coglione. Oggi, quasi vent'anni dopo, ricordo ancora quelle parole e com'erano vere: vent'anni dopo quel gruppetto di fraternità è ancora un gruppetto di coglioni che sbanda e risbanda da tutte le parti. E non siamo diventati bravi mariti e brave mogli. Macché. Ci tiene insieme solo Gesù Cristo. Quando ci ricordiamo. Don Giorgio lo vedevo tutte le mattine quando mia figlia più grande cominciò ad andare anche lei a scuola al Sacro Cyore. Freddo, sole, pioggia o vento, ogni santa mattina era lì in piedi davanti alle porte che aspettava che entrasse ogni singolo ragazzo e ragazza, ed erano centinaia. Li salutava uno per uno, tutti. Non ne perdeva uno. Qualche volta mi fermavo a dirgli due parole, gli ricordavo il nostro gruppetto di fraternità e quando sarebbe venuto a trovarci ancora. "L'anno prossimo vado in pensione" mi disse. "Vedrai che troverò il tempo". Invece no. Una sera, poche settimane dopo che era morto il Giuss, ero a cena con alcuni della diaconia lì da lui, al Sacro Cuore. Dopo che il Giuss se n'era andato lui, Don Giorgio, era cambiato parecchio. Sembrava trasfigurato. Parlava e citava il Giuss continuamente. Era diventato il suo termine di paragone per ogni singola parola e azione. Il suo sguardo si perdeva in un oltre che a noi non era dato percepire. Ricordo davanti al suo piatto una tazzina piena di pillole di ogni colore, ne mandava giù in continuazione, dopo essere stato operato al cuore poco tempo prima. L'ultima volta che l'ho visto, a una assemblea, due anni fa, mi ero alzato per dire alcune cose. Corbellerie più che altro. Gli avevo anche raccontato di come, portando mia figlia a scuola ogni mattina, anche se non ne avevo voglia, anche se morivo di sonno, anche se mia figlia mi aveva già fatto girare le balle, mi sforzavo a dire con lei l'angelus, perché mi costringeva a uscire da me per impattarmi a una realtà più grande. Così succedeva gni mattina. Lui cazziò parte del mio intervento, ma di quella cosa dell'angelus mi ringraziò: "E' proprio così Paolino". disse. "Anche io certe sere sono così stanco che non vorrei neppure pregare. Eppure farlo apre il cuore alla realtà, quella vera, in cui anche la stanchezza o l'incazzatura vengono accolte e facendo ciò cambia la realtà". Oggi, festa di San Fortunato, 30 anni dopo. C'è un filo rosso misterioso, che attraversa le nostre sistenze. No, non ci rende più bravi, mariti e mogli migliori. Solo, ed è quello che conta, attraverso gli incontri di carne e sangue ci indica qual è il nostro destino. Ogni cosa parla di Lui. Ogni persona, ogni stretta di mano, indica quel Mistero che ci attende, con pazienza infinita. Ogni momento non è perduto, anche e nonostante la nostra miseria.

God is in the house

14:19 / Pubblicato da Paolo Vites / commenti (0)

"Io sono un acchiappa anime per conto di Dio" disse una volta Nick Cave. Ieri sera, al Teatro Dal Verme di Milano, il cantante, musicista e scrittore australiano deve averne acchiappate di anime. Come sempre d'altro canto quando lui sale su di un palco. Anche l'amica seduta al mio fianco, che di solito non ci pensa granché, a Dio, me lo conferma: "Mentre cantava non potevo fare a meno di pensare a Dio". "La canzone d'amore è la luce di Dio, giù nel profondo, che si fa largo tra le nostre ferite. Alla fine la canzone d'amore esiste per riempire, con il linguaggio, il silenzio tra noi stessi e Dio", ha detto ancora Cave. Venuto per presentare il suo nuovo romanzo, La morte di Bunny Munro, dissacrante, provocatorio, a tratti osceno (come mel suo stile) racconto di un commesso viaggiatore la cui unica ossessione è il sesso e il tradimento continuo chene consegue, tanto da spingere la moglie al suicidio per la disperazione, il cantante ne ha eseguite di canzoni d'amore, seduto da solo al pianoforte, creando quella tensione emotiva così palpabile come lui solo sa fare: Are You The One That I've Been Waiting For, Love Letter, Lucy, Into My Arms, Lime Tree Arbor, The Weeping Song. Scatenandosi poi in piedi le mani rivolte al cielo come un predicatore folle del vecchio West, nel suo elegante completo gessato e gli anelli d'oro che brillavano alle dita, nei rituali voodoo di Red Right Hand, Dig Lazarus Dig (la resurrezione ambientata tra le strade di New York), Tupelo e Grinderman, contemplando infine la misericordia sul condannato a morte di The Mercy Seat. Così come le sue canzoni, anche il suo romanzo nonostante i temi scabrosi è un viaggio verso la redenzione, che si compie nel sacrificio del protagonista, accompagnato solo dal figlio che lo ama di un amore gratuito e dalla presenza misericordiosa del fantasma della moglie. Mentre, intorno a lui, un inquietante personaggio vestito da demonio - quasi a ricordargli il suo peccato - compie gesta sanguinose, incalzandolo sempre più vicino. E' la vita, e Nick cave ne sa una cosa o due. La vita sempre in bilico tra peccato e possibilità di redenzione. Realtà dell'uomo, innegabile e impossibile a mani d'uomo da risolvere. Ma c'è una possibilità. Lui lo sa, ce lo dice quando esegue quasi fossimo in una chiesa abbandonata dalla maggioranza degli uomini, ultimi sopravvissuti all'apocalisse dei tempi moderni, la commovente e sussurata God is in the House, Dio c'è, qui. "In ogni mia parola e in tutto quello che so, c'è una mano che mi protegge"

Uomini. E donne. Donne e bambini. E uomini.

08:24 / Pubblicato da Paolo Vites / commenti (3)


Uomini. E donne. Donne e bambini. E uomini. Storie diversissime che si intrecciano dietro a un pallone, correndo scivolando cercando di mettere quella palla in rete. E donne dietro la rete e bambini che guardano i loro uomini, i padri e gli amici. C'è anche un prete in quel campetto, ma non lo diresti mai con quella maglia nerazzurra con il nome di un (bravo) giocatore dell'Atalanta sulle spalle. Non lo diresti mai perché non perde un secondo di quello che succede in campo, anche quando è il suo turno di stare fuori. Non va in giro a fare sermoni. Perché siamo lì per giocare al pallone e l'esperienza è quello che accade, ora e qui. Non quello che è stato con gli errori quotidiani che abbiamo fatto o i castelli di sabbia che costruiamo sul nostro futuro. Dopo, il prete parlerà anche, ma adesso gioca e osserva. "Gesù gli disse: 'Perché mi chiami buono? Nessuno è buono, se non Dio solo'". Lo diceva il Vangelo di domenica, neanche a farlo apposta il giorno dopo che si è giocato il triangolare di calcio tra detenuti, guardie del penitenziario e amici di Simone. No, nessuno è buono, e se lo diceva Gesù di se stesso, lui che buono lo era davvero, figuriamoci come siamo stupidi noi quando crediamo di esserlo, buoni. Sabato 10 ottobre su quel campetto non c'erano buoni e cattivi, furbi e incapaci. C'erano uomini, con le loro storie, sbagliate, giuste, dolorose o fortunate. Chi se ne importa. Adesso, perché quello che conta è adesso - l'esperienza - c'è gente che liberamente sta testimoniando, tutta, un fatto accaduto. E' accaduto un fatto altrimenti nessuno di loro sarebbe qui ora. "C'è un Fatto, c'è e non ce n'è" come dice l'amico Carròn. Il Fatto si impone, come oggi, basta guardare tutta questa gente accorsa qui. E' un fatto che viene da lontano, è un fatto che persiste, nell'esperienza: è quel filo rosso che un pomeriggio di inverno di alcuni mesi fa ha fatto incontrare alcuni di loro, detenuti con il permesso di uscire alcune ore, con gli amici di Simone. Il filo rosso si è dipanato nei mesi e nei giorni successivi e alcuni di loro sono cambiati. Tutti, detenuti e amici di Simone, sono cambiati e stanno cambiando perché a quel fatto che si è imposto a loro, senza che loro lo avessero neanche mai immaginato, ci sono stati. La mamma di Simone viene chiamata a ritirare la coppa che la squadra de gli Amici di Simone ha vinto. Ecco, quando lei prende quella coppa quel filo rosso che si dipana da un tempo immemorabile, un tempo che non ci appartiene, appare evidente a tutti. Perché è Simone che ha messo in moto tutta questa cosa. E' da lui che è partito tutto perché è lui che opera, dal cielo. Da quel pomeriggio che è accaduto l'incontro fra alcuni detenuti e gli Amici. Poi alcuni hanno preso sul serio questa cosa e fatti miracolosi sono accaduti e accadono. Ma senza Simone nulla sarebbe accaduto, senza il suo sacrificio e il suo dolore, non sarebbe accaduto. Ecco che fatti una volta inspiegabili adesso si spiegano. Come dice adesso quel prete che la maglietta nerazzurra se l'è tolta, "non lo sappiamo cosa succederà e non importa quanto abbiamo sbagliato fino a ieri, fino a pochi minuti fa e se sbaglieremo ancora. L'unica cosa che conta è che il nostro cuore pieno di desiderio rimanga sempre desto". I pulmini del penitenziario hanno acceso i motori e aperto le porte. Loro, i detenuti, salgono uno a uno. Hanno chiesto a quel prete, don Eugenio, di potersi incontrare ancora. Lui ha detto che deve decidere la direttrice. E lei ha detto che va bene, solo il prete deve venire giù a incontrare mica solo loro, quelli che oggi hanno giocato, ma tutti i carcerati che stanno lì, dietro le mura del dolore.Il filo rosso continua a dipanarsi. E io vedo quell'uomo dai capelli grigi e il fisico asciutto e slanciato, io vedo Pino che risale sul pulmino del penitenziario con uno sforzo elegante, tirandosi su con forza con entrambe le braccia. Potrei essere impazzito, ma quello è il gesto di una persona che è serena, perché sa che comunque il suo destino è un destino buono.
                                                                                                     Paolo VITES


Intervento di D. Eugenio NEMBRINI all'evento: (trascrizione non rivista dall'autore)

Io sono stato a lavorare come prete sempre nei bassifondi, prima in un quartiere malfamato di Roma poi sono stato 10 anni in Kazakistan in un posto assurdo, adesso in una scuola di Milano, rettore di questa scuola.
Tra Roma, Kazakistan e la scuola di Milano non c’e’ differenza, certo che c’e’ differenza, mi capite anche voi, ambiente, situazione, tutto e’ diverso ma e’ impressionante che non c’e’ differenza, cioè il cuore dell’uomo qualunque uomo abbia incontrato dal più semplice al più casinista e’ proprio uguale. Ha dentro una voglia, ha dentro un desiderio ha dentro una volontà ha dentro un grido di bene che e’ impressionante. A me non frega assolutamente nulla poi che strada uno ha fatto ma il problema della vita e’ che uno, due, cinque, otto tra noi prima o dopo possano arrivare a incontrare questo destino buono per se. Strade tortuose magari, ma chi se ne frega, il problema della vita e’ se questo grido che abita nel tuo cuore prima o dopo può impattare con una speranza con una presenza. Io dico solo questo ai miei amici, continuo a ripeterlo, che cosa vi domando: io non vi chiedo di essere bravi, che e’ un termine così cretino che non vuole dire proprio niente, non vi chiedo di non sbagliare, io vi chiedo solo di essere seri con questo grido. Perché prima o dopo se uno grida, bussa, domanda prima o dopo sta tranquillo che il Padre risponde . Tutta la bellezza della vita sta in questa presa di coscienza e di serietà con il proprio  cuore. Anche oggi comunque guardate, a parte un po’ le camionette, se fosse venuto qua chiunque a guardarci giocare avrebbe visto chi ? della gente lieta di essere insieme che gioca a pallone. Guardate siamo così. Poi i nostri amici dovranno ritornare. Io non so cosa ti aspetta o non ti aspetta nella vita. Ma io so che qualunque posto vai il tuo cuore non lo fa tacere nessuno, ma non solo voi che siete in carcere anche tu che vai a scuola. Seri e veri con questo cuore che ha solo voglia di incontrare una risposta. Il demonio non e’ quello che ci frega facendoci fare le cose brutte, ci frega facendo tacere il cuore. Dio non vuole le cose belle, riaccende tutti i giorni il nostro cuore. Il cristiano, il religioso e’ uno che si prende sul serio così. Per cui l’augurio per tutti liberi, non liberi, avvocati, guardie, carcerati e’ la stessa roba ; seri e grandi con il cuore. Se poi questa amicizia la continuate e’ una cosa straordinaria, io ci sono e spero proprio di venirvi ad incontrare ancora.

















Due tipi strani

16:35 / Pubblicato da Alessandro / commenti (4)


Genova foce, dieci del mattino, 30esima o 40esima edizione del salone nautico, oramai ho perso il conto. Casino ovunque. E io lavoro proprio li a pochi metri, non ne posso più. E ovviamente stamani mi tocca muovermi per la città.
Aspetto pazientemente il "42", 20 minuti di attesa immerso nelle "polveri fini" di questa city. Umidità al 90%, ma non è arrivato l'autunno? Ovviamente sull' autobus posti a sedere zero, aria condizionata optional, finestrini sigillati, odori umani "pressanti". Sto attaccato ad un maniglione che mi fa venire alla mente l'albero della cuccagna unto di strutto.
A pochi metri due tipi strani. Lui avrà sessantanni, lei diciotto, venti, non so. Bassetta, rotonda. Down.
Anche bruttina per essere down, ma un viso estremamente simpatico.
Per nulla addormentata al contrario dei compagni di viaggio, anzi costringe il padre a tenerla stretta perchè lei è particolarmente irrequieta ma non agitata. Si vede che stanno proprio bene insieme, li osservo e sorrido. Che belli che sono. Li intorno qualcuno guarda curioso, qualcuno infastidito. E si, quei due sono proprio inquietanti. Disturbano la nostra visione "pulita" della vita.
Ma è troppo chiaro, quei due sono esageratamente più felici di quelle persone infastidite dalla loro presenza. Sorrido ancora mentre immagino di essere qui anch'io con Simo, in giro per la città. Fosse ancora qui.
Mmh..., beh, come dice un mio amico: se il cuore sanguina, lascialo sanguinare.
Proprio belli quei due, starei a guardarli per ore. Ma in piazza De Ferrari scendono, li saluto con lo sguardo e con il cuore. Lei è contenta, ride mentre trascina per la mano il padre che sembra un ragazzino pure lui, sereno. Molto più felici di tutti noi. Io continuo a sorridere come un cretino, li in mezzo alla gente. Valeva proprio la pena di alzarsi oggi. Cristo era li che sorrideva in quella bambina.
Come al solito, l' apertura del cuore all' inatteso mi porta anche pensieri strani: il genocidio dei bimbi down continua, ne vedete ancora in giro voi? Sono i più facili da eliminare. Ma Gesù era li oggi. E la Speranza ora è un po' più viva in me.

Out of control

17:50 / Pubblicato da Alessandro / commenti (0)


 
Giornata lavorativa finita. Prima di spegnere il pc un po’ di cazzeggio sui siti preferiti. Su U2place si festeggiano i 30 anni dall’uscita del primo singolo Out of control. Ci sono 2 righe di Bono:

Out of control racconta cosa vuol dire svegliarsi la mattina del tuo 18° compleanno e realizzare che non hai voce in capitolo sulle due cose più importanti della tua vita: nascere e morire

A casa rimugino su quelle 2 righe. Mi viene in mente il 10° capitolo del Senso Religioso di Don Giussani, “Come si destano le domande ultime”.

L’io, l’uomo, è quel livello della natura in cui essa si accorge di non farsi da sé. Così che il cosmo intero è come la grande periferia del mio corpo senza soluzione di continuità. Si può anche dire: l’uomo, è quel livello della natura in cui la natura diventa esperienza della propria contingenza. L’uomo si sperimenta contingente: sussistente per un’altra cosa, perché non si fa da sé.”

Chiude il cerchio l’Enciclica di Benedetto XVI Caritatis in Veritate capitolo 2 “Lo sviluppo umano nel nostro tempo” (non l’ho letta tutta ma questo passaggio mi è proprio piaciuto)

L’uomo non è un atomo sperduto in un universo casuale, ma è una creatura di Dio, a cui Egli ha voluto donare un’anima immortale e che ha da sempre amato. Se l’uomo fosse solo frutto o del caso o della necessità, oppure se dovesse ridurre le sua aspirazione all’orizzonte ristretto delle situazioni in cui vive, se tutto fosse solo storia e cultura, e l’uomo non avesse una natura destinata a trascendersi in una vita soprannaturale, si potrebbe parlare di incremento o di evoluzione ma non di sviluppo.”




Me ne vado a letto più contento.Troppe volte durante la giornata finisco col pensare che il mio valore stia nei risultati conseguiti sul lavoro o sia da cercare nei frutti dei miei sforzi....troppe volte rischio di pensare che il mio valore sia legato alla capacità di indovinare le oscillazioni della Borsa...
E invece no! E penso ai miei amici che, in un modo o nell'altro, mi testimoniamo che il mio valore è Altro, a prescindere .
 
Buonanotte, a presto con tutti voi!
 
Antonio Giuliano
 

Maria e Caterina

17:02 / Pubblicato da Paolo Vites / commenti (0)

La Madonna è venuta, stava in cima al letto, dietro la testa di Caterina. L’ha benedetta e ha benedetto Alessandra e Marija che ha chiesto il miracolo della guarigione per Caterina..... leggi il resto della testimonianza di Antonio Socci qui: http://www.ilsussidiario.net/articolo.aspx?articolo=38846

L'infinito mare

16:28 / Pubblicato da Paolo Vites / commenti (6)

"Se desideri costruire una nave, non radunare uomini per tagliare legna, dividere i compiti e impartire ordini, ma insegna la nostalgia per l’immenso e infinito mare" Antoine de Saint-Exupéry

La schiena di Parker

11:19 / Pubblicato da Paolo Vites / commenti (3)

Il racconto più bello di Flannery O'Connor, raccontato da Antonio Spadaro e Davide Rondoni

Un'estate semplice

14:01 / Pubblicato da Alessandro / commenti (3)

Monti di Pratosopralacroce Un'estate semplice. Dove i luoghi, gli amici, le cose si sono presentati sotto un aspetto nuovo. Semplici cose piene di significato. Una giornata a Pratosopralacroce, bellissimo paese nell'entroterra chiavarese, dove dall'ospitale, desiderosa accoglienza di uno, è nata un'infinita storia d'amicizia. Guardavo questi luoghi, il bosco delle fate, i monti, le case contadine e non pensavo a niente di preciso. Improvvisamente mi sono sentito come rasserenato, come se fossi passato dalla percezione dei sensi ad una percezione tutta interiore. Tutti questi luoghi sembrano raccontare di un Altro. Del suo misterioso disegno. Luoghi che ho condiviso con alcuni amici, con cui la confidenza fraterna e semplice stabiliva tra i cuori una comunicazione dolce, serena, anche se non verbale. Mi sono riscoperto felice in un periodo in cui non è ancora chiaro nulla. Ma piccoli embrioni di luce mi sono stati donati, è chiaro. Bosco delle Fate La realtà ha dato sapore a quelle che erano prima parole un po' meno piene: amicizia, verità, libertà, amore. Da questi luoghi viene Renzo, una specie di cristiano raro come il bradipo albino delle molucche. La semplicità amorevole di Cristo la immagino un pò così. Poi c'è stata un'affinità misteriosa con una persona con cui ora sono più amico, perchè è possibile instaurare un rapporto profondo anche in poco tempo, quando ci sono affinità che convergono in un Punto. In questo agosto ho conosciuto meglio Mattia, mio piccolo amico di un anno che Gesù ha scelto per portare il peso di una passione fisica che mi è difficile comprendere, anche se Simone dovrebbe avermi insegnato qualcosa. Tenerlo in braccio per pochi minuti è stato come tenere in braccio Cristo in croce. Ridicoli i miei tentativi di non piangere tentando di distrarmi parlando d'altro, mentre lo cullavo tra le braccia. Che tu possa essere segno glorioso della misericordia di Dio per tutti noi, mio piccolo amico. Poi l'incontro, bello e fascinoso, con l'amica che non vedevo dal '95. E me ne accorgo solo se ci penso. Forse se uno è in cammino verso la stessa meta accade così. Un agosto con l'amico più "vicino", che scopri inaspettatamente più fragile, ma così affetto da quella fede viva, reale, vissuta con i limiti della carne, che renderebbe vitali anche le sue ceneri. E ti accorgi di come quel cuore, anche nei momenti più bui, non lascia spazio al grido della disperazione. Certi amici la vita li porta a te come un tesoro immenso e misterioso. Non è "naturale" avere amici così. A fine agosto, dopo anni di assenza, il meeting a Rimini e l'incontro, inatteso, con Luigi, uno dal passato vivace. Uno che ha dato il nome di tuo figlio alla bellissima casa famiglia a Matino (LE), dove vive con la sua famiglia accogliendo disagi di ogni genere. Comunità familiare Simone Tanturli, e si che non lo ha mai conosciuto o, forse l'ha conosciuto meglio di tanti altri attraverso volti amici. E uno che ti dice: ti aspetto, vieni quando vuoi quella è la tua casa, ti spiazza. Ti fa aprire un poco quel tuo cuore indurito. Ci vedremo presto Luigi. Casa Famiglia Comunità familiare Simone Tanturli, Matino (LE)

Il caso non esiste

11:15 / Pubblicato da Paolo Vites / commenti (1)

"Questa conversazione che stiamo facendo adesso è già accaduta" mi dice, lasciandomi alquanto perplesso, John Waters mentre ci fermiamo a parlare fuori del ristorante del Meeting dove abbiamo pranzato con alcuni amici del Sussidiario e la redattrice di Traces, la versione stelle e strisce di Tracce. "La mentalità moderna continua a insistere che bisogna guardare avanti" dice ancora il giornalista irlandese che ha ritrovato la fede dopo una esistenza nella corsia di sorpasso, "che il futuro realizzerà i nostri sogni. Non è vero. Passato e futuro esistono solo nel momento presente, è nel momento presente, in questo istante che accade ora che la vita si spiega. Quello che ci stiamo dicendo adesso è già stato pensato e voluto da Dio". Ecco. E io che lo avevo assillato con domande su cosa sarà della mia vita, le mie incertezze e i miei dubbi. Conversazioni che accadono facilmente al Meeting di Rimini, edizione del trentesimo anniversario. Non è un caso che uno degli incontri del Meeting, quello con il figlio del commissario Luigi Calabresi, si intitoli proprio "Il caso non esiste". Questo Meeting mette a dura prova. La fatica è cosa non da poco, specie per chi arriva da giorni di vacanza molle. Fa caldo, molto, e la calca di persone è in certi momenti insopportabile. La coda per visitare le mostre più significative, ad esempio quella bellissima dedicata al Rione Sanità di Napoli e alla novità affascinante che vi è nata grazie a un gruppo di amici, possono durare anche mezz'ora. Poi se fai come noi che ti porti al Meeting una banda di ragazzini la fatica è ancora di più. In certi momenti ti scoraggi pure: ma che ci sono venuto a fare qui dove per cenare ci metto anche due ore e mezza? Il fatto è che il Meeting è come la vita. Non è come le feste di partito o le sagre della melanzana dove ci si va per dimenticare la vita: qui, come dice John Waters, la vita accade, ora. Il Meeting è faticoso e richiede apertura e disponibilità totali proprio come nella vita. Trentamila persone sono piovute giù nel terzo giorno solo per ascoltare Julian Carròn parlare di San Paolo. Il Meeting, come la vita, richiede adesione. E poi fai gli incontri più belli, quelli che ti rilanciano. L'amica che ha lasciato il movimento da dieci anni ma che ancora adesso chiama quel luogo "l'unica casa che ho avuto". Ci si saluta con la promessa di non lasciarsi per strada. Puoi incontrare Vicky e Rose. E alla fine, poco prima di partire, al bar dei "napoletani", incontri don Eugenio che come sempre lascia immediatamente la conversazione in corso per abbracciarti forte. Ecco, è in quell'abbraccio forte che si scioglie tutta la fatica fatta al Meeting e ti senti nell'unica casa che puoi avere. Adesso sei pronto a ripartire, a ripartire da quell'abbraccio che non ti lascia mai, seguendo l'esperienza di un altro. Come diceva Carròn agli esercizi della Fraternità, il Meeting insegna che bisogna "seguire fin quando a un certo punto uno segue se stesso colpito dall'esperienza che fa un altro, perché è così tutt'uno con se stesso che alla fine segue se stesso colpito dall'esperienza di un altro". Paolo Vites E' un momento particolare. Uno di quei momenti in cui la domanda è viva e presente. Io che sono un'ansiosa preferisco che tutto (o quasi...) sia a posto, che non avvengano troppi scossoni. Invece quest'estate 2009 è uno scossone. Mi ha obbligato a cercare di stare in modo serio davanti alla mia vita.... Ed eccoci al Meeting! Sì, può prevalere il lamento (non si portano i bambini al meeting, che caldo, ma quanta gente c'è, che palle tutte 'ste code, ecc) ma poi non si può non guardare a Chi ha permesso tutto questo. A Chi ha permesso gli scossoni nella mia vita. Ho visto bene solo 2 mostre, ho partecipato a 3 incontri e ho speso un pò di soldini in libreria. Poi con i miei amici ho incontrato Rose e VicKy. E poi un amico, anzi, l'amico dell'estate 2009 (perchè attraverso gli scossoni Gesù ti fa incontrare amici nuovi che ti guardano in modo nuovo, come ti guardano i tuoi amici-fratelli più cari, quelli di sempre) mi presenta a Don Eugenio, il prete che mi ha fatto prendere coscienza dell'imminente scossone, e il suo sguardo e quell'abbraccio me lo porto via! Lieta come non mai. In questo momento in cui troppe volte i se prendono il sopravvento sono lieta, perchè certa che "tutto è dove deve essere e va dove deve andare: al luogo assegnato da una Sapienza che - il Cielo ne sia lodato - non è la nostra". E guardo i miei amici, l'amico più caro, l'amico nuovo che col suo sguardo e un regalo mi fa sentire voluta bene, sul serio... e il mio bambino che nonostante i capricci mi ringrazia per averlo portato in un posto dove eravamo tutti amici! Ecco perchè si portano i figli... perchè per loro, le loro vite e gli eventuali improvvisi scossoni desidero solo questo! Cristina Bona

La prima pietra. (Lettere dal carcere)

12:01 / Pubblicato da Alessandro / commenti (3)

Le dieci di sera di martedì 4 agosto 2009

Amici carissimi,

sono davvero lieto che oggi mi abbiate scritto di nuovo, e con oggi (4 ago) intendo il giorno in cui ricevo a mano la lettera di Maurizio e Alessandra C.. Prima c'era stata la lettera di Francesca T., altro scritto tanto gradito quanto delizioso, ma sempre preceduto dall'attenzione e dalle preghiere di voi tutti. Devo dire che mi piacciono moltissimo queste sorprese da parte vostra, oltre che per le cose che mi dite, anche perchè per istinto mi confortano. Mi confortano perchè la cosa peggiore che può capitare ad un uomo che, come me, rimane molto tempo da solo è di non avere più molta immaginazione, ma voi, non interrompendo il cordone ombelicale con quell'irripetibile esperienza delle torte fatte in onore di Simone, fate in modo che la mia fantasia rimanga sempre viva e, in questo modo, mi tenete legato alla vita. Del resto voi non potete immaginare quante cose io so di voi perchè Vincenzo e altri mi raccontano, in cui voi apparite come una forza benefica e piena di responsabilità per noi. Perdonatemi anzi del mio silenzio e della mia tristezza, ma è tutta colpa delle pubbliche sciagure se fino ad oggi non mi sono degnato di ringraziarvi con uno scritto. Nell'ultimo periodo mi sono ritrovato senza verve e senza forze, ho attraversato una condizione di gran lunga peggiore delle precedenti, perchè senza aspettarmelo ho visto polverizzarsi tutte le aspettative processuali che mi ero creato. Mi ripetevo, allora, che la vita per me in questo stato, la vita così non è vita. E a che serve essere ottimisti se non esiste rimedio?

Non ho mai pensato di cedere alla tentazione di una depressione, sia chiaro, ma cercate di capirmi: che fai quando ti senti solo e così insicuro di tutto? Quando provi un profondo senso di smarrimento e di disperazione? Dove andare, che fare, che dire ai figli, che dire a se stessi? Riuscite a capire quanto può essere amaro per un uomo colpito da un dramma personale di così grande portata? Si guarda il mondo come da una finestra. Da un lato si vedono persone felici, senza pensieri, e dall'altro si vede se stessi: non è facile da accettare. Per carità, non merito di essere compianto nemmeno da voi, perchè al punto in cui sono ci sono voluto arrivare io, però credetemi che si aprono ferite non facili da medicare. Ci sono soprattutto famiglie che pagano il prezzo di decisioni insensate. Ci sono figli cresciuti senza genitore che soltanto adesso cominciano ad elaborare l'enormità di quanto accaduto. E lo fanno da soli, sulle loro spalle, lottando con un imbarazzo difficile da ignorare. Questa è la verità prevalente che mi rendeva così cupo, al di là del fatto che in tutta la mia vicenda non c' è un discorso, non c'è una parola che odori di giustizia, d'intelligenza, di buon senso. Poi c'è stata la mobilitazione che sapete, tante persone che si sono schierate dalla mia parte, sicchè in essa ho trovato la forza per uscire dall'apatia in cui stavo per sprofondare e, buon Dio, ora sfiderei tutte le forze dell'Inferno, sapendo di poter contare sul vostro appoggio e sulle vostre preghiere. Ma ho verificato ancora una volta che quando uno dipende dagli altri in tutto, beh, perde la capacità di essere se stesso, perde la razionalità, perde tutto. E se non trova il giusto aiuto, finisce per perdersi.

In generale, io evito sempre di valutare chiunque fondandomi su ciò che si suole chiamare intelligenza, bontà naturale, prontezza di spirito, perchè so che tali valutazione hanno ben scarsa portata e a volte si rivelano ingannevoli. L'opinione che mi sono formato, tuttavia, è che la gioia nella vita venga soprattutto dalle persone che incontri -se trovi quelle giuste- e da tutti i pezzetti che ho messo insieme, ho capito che voi lo siete. Anzi, lo dico perchè mi da molta soddisfazione farlo, voi siete senza confronto le persone più gradevoli e concrete che io abbia mai visto operare in carcere. E non lo penso solo io, in molti qui, dicono che avete lasciato il segno.

Qualcuno potrà obiettare che è piuttosto comune diventare emotivi dopo un'esperienza come la mia, ma tutto ciò che io e Vincenzo abbiamo ricevuto da voi, amici, non ha prezzo. Prendete le lettere che mi avete scritto: sono deliziose per il tono di dolcezza e di fiducia che vi regnano, personalmente le ho trovate oneste e sincere come il vostro animo. Anche oggi, infatti ero cupo, triste, sofferente, ma poi ho ricevuto la seconda lettera portatami da Francesca, l'ho letta, e ho brillato per il resto della giornata. Ve lo farei domandare a Ernesto, se sia vero oppure no. Allora, non so se voi siete fatti della stessa sostanza di cui sono fatti i sogni; non so se quello che dite nelle vostre preziose lettere sia solo un'illusione gonfiata dalla speranza; non so nemmeno se dico queste cose perchè la mia vita ora è ridotta a un centimetro quadrato e questo condiziona concretamente le mie vedute; ma tutto quello che so è che vi voglio bene più della felicità e del piacere, di questo siatene certi, perchè voi mi tenete in vita come niente e nessuno al mondo. Francesca S. è una persona piena di sorprese, d'accordo, non la scopro certo io anche se ho avuto la fortuna di constatarlo personalmente, ma di sicuro siete stati voi tutti, insieme, che avete smosso le acque del mio immobile stagno, facendomi l'onore di credere che sono rimasto incastrato ingiustamente nella sentenza che ho subìto. Questo significa che Dio c'è, che mi vuole bene, che nutre per voi una profonda stima, se vi ha messo sulla mia difficile strada. E c'è da capirLo: le persone virtuose e sincere sono talmente rare, che non si finisce mai di apprezzarle e usarle per fare il bene. Credo perciò anche alle virgole che parlano di voi.

Un'ultima cosa: mi sono riconosciuto in Francesca T., quando nella sua lettera ha accennato al vuoto lasciato da Simone. Capisco quanto sono importanti i figli, io ho cercato di sopportare tutto soprattutto per il mio Emanuele, che si preoccupa molto per me. Perciò un fattore ha pesato più di ogni altro sulla mia decisione di accettare il vostro aiuto, quello che questa donna e suo marito hanno sofferto veramente. Ho pensato che solo persone in questa situazione potevano capire la mia e intuire il mio inferno, e con loro tutti gli amici che hanno aderito all'Associazione, i quali, svolgendo una gran quantità di lavoro serio per altri bisognosi, non hanno fatto sentire inutile una perdita così importante. Ebbene, grazie a tutti voi per non avermi fatto cadere in quello stato di inerzia che non mi avrebbe permesso di essere grato per ciò che mi viene dato.

Non so per quanto tempo dovrò mangiare questa pasta scondita e dormire in letti scomodi, ma vi assicuro che se un giorno avrò la possibilità di dimostrarvi la mia riconoscenza lo farò molto volentieri. Che questo accada o meno è probabile pure che non ci vedremo mai. In ogni caso, carissimi amici di Simone, sappiate che quell'embrione di stima e di amicizia che è nato per voi resterà sempre intatto in fondo al mio cuore come la prima pietra di un edificio.

Mille abbracci e tante cose a tutti.

Giuseppe.

Una macchia rosa ben precisa

11:44 / Pubblicato da Alessandro / commenti (3)

Ieri sera stavo leggendo l'ultimo libro di don Giussani,"Qui ed ora",e alcuni passaggi mi sono sembrati un giudizio su come io mi sono rapportato alla serata alla torta dei Fieschi. Infatti ha pesato, anche giustamente, la negatività di tutti i testaieu avanzati, la fatica sprecata di una settimana di lavoro, l'incasso sicuramente minore di come speravo.Così mi sono preoccupato di più delle cause, di una errata valutazione delle possibilità di vendita ,del posto dove eravamo, delle presenze che erano calate rispetto agli anni precedenti e via di questo passo. Ma se da un lato un bilancio è necessario per non rifare gli stessi errori, questo può essere l'ultima parola? In una canzone di Chieffo si definiscono i bilanci "assurdi inventari fatti sempre senza amore"e alcuni brani di don Giuss hanno ricentrato la questione:
"Continuare a essere attivisti, continuare a buttarsi nelle iniziative, in un attività frenetica, stanca e logora, a meno che tale attività, per un cambiamento profondo, non diventi espressione nostra. Allora uno lavora da mattina a sera, si stanca come una bestia, va a letto e dorme, ma è contento, perchè tutta la sua attività lo esprime, esprime la sua persona, afferma la sua persona e perciò lo matura."pag.72
"La nostra idea di fare storia è profondamente cambiata: prima fare storia era costruire qualcosa, forti di una propria originalità, di una propria idea, ora fare storia vuole dire accogliere l'opera di un Altro, cioè accogliere il fatto che ciò che rende vera la mia umanità è un Altro" pag 106 Cioè per giudicare tenendo conto di tutti i fattori, per fare emergere la verità di quel gesto dovevo tenere conto non solo della fatica della settimana, ma che la passione dei ragazzi, belin parliamo come se fossimo da casa di riposo, è un valore a prescindere, quella sera in un angolo di piazza c'era comunque una macchia rosa ben precisa, che magari lentamente e faticosamente è parte di un popolo, che nonostante i miei limiti e la mia pigrizia è casa mia, quella dimora che è punto fisso di un peregrinare che ora ha anche una meta, un punto di approdo. Insomma se da un lato è giusto valutare l'efficacia della serata l'ultima parola deve essere la gratitudine per l'amicizia, per una "compagnia guidata al Destino" che rende possibile che quel destino, cioè Cristo, diventi carne, sostanza della mia quotidianità. Il giudizio più vero diventa la preghiera detta insieme prima di iniziare.

Safe in heaven dead

12:31 / Pubblicato da Alessandro / commenti (0)

I suoi grandi occhi passavano dal sorriso luminoso alle lacrime in pochi secondi. Guardavi gli occhi di Fernanda Pivano, la Nanda come la chiamavano gli amici, e pensavi: questi sono occhi che hanno incrociato quelli di Cesare Pavese. E di Ernst Hemingway. E di centinaia di altri protagonisti della letteratura del ventesimo secolo. Faceva impressione che questa piccola donna avesse condiviso lavoro, gioie e dolori con tutti questi giganti. Che lei aveva amato profondamente perché amava profondamente la letteratura. Sempre alla ricerca di un nuovo scrittore, di un nuovo amore a cui dedicare notti di lettura. E dopo averlo conosciuto e amato lei, ce lo faceva conoscere ed amare anche a noi. Ha attraversato tutta la seconda metà del secolo scorso con il fuoco della letteratura che le bruciava dentro, da quando aveva avuto come insegnante proprio Cesare Pavese poco prima dello scoppio della Seconda guerra mondiale. Nel 1943 arriva la sua prima traduzione, quella dell'Antologia di Spoon River e con essa l'inizio di un patto di ferro con il mondo degli scrittori americani. Oggi si può dire, magari scatenando le ire di qualcuno, che la Nanda non fosse proprio una grande traduttrice. Anche il celeberrimo Sulla strada di Jack Kerouac non fu reso in italiano da lei come avrebbe meritato. Quando si andava a cena con lei con qualcuno dei suoi “amici americani”, questi si stupivano di come avesse potuto affrontare tante traduzioni lei che l'inglese non lo masticava proprio bene. Ma non era questo il punto. Più che una traduttrice o una scrittrice, Fernanda Pivano è stata commossa partecipe di uno dei periodi più rigogliosi della storia della letteratura americana, in cui si è infilata senza paura, condividendo amicizie e facendosi carico di proporre questi scrittori a editori di casa nostra che naturalmente giudicavano queste opere perdite di tempo. Lei ci ha rimesso tempo, soldi e salute, ma alla fine ha dimostrato che aveva ragione lei. Anche se traduzioni migliori sono arrivate poi. C'è una foto bellissima che testimonia più di tante parole chi è stata questa piccola grande donna. Sul finire degli anni 60 il poeta americano Allen Ginsberg venne in Italia per alcuni reading. Andò a trovare la sua amica Nanda – che conosceva sin dagli anni 50 – che villeggiava come suo solito a Santa Margherita Ligure. Saputo che in quei giorni ci si trovava anche il grande poeta e scrittore Ezra Pound, le chiese di farglielo incontrare. A Ginsberg, come a tanti americani, non importava nulla dell'ostracismo in cui, per ideologici motivi era stato posto Pound. Importava solo la bellezza delle sue parole. La foto, scattata a Portofino, tempio della mondanità, ritrae Ginsberg, con il suo look del periodo, cioè da hippie, totalmente fuori contesto nel luogo dove si trovavano; la Pivano, sorridente come sempre, ed Ezra Pound con l'aria annoiata di chi vorrebbe essere altrove. Ma è uno scatto formidabile che mette insieme storie culturali e umane diversissime, incroci letterari che hanno reso grande il Ventesimo secolo. Storie di cui spesso la Pivano è stato il collante e il testimone. Come quando portò, nel 1968, un ormai alcolizzato e vicino alla morte Jack Kerouac per una intervista televisiva alla Rai. Un documento doloroso, dove una delle menti più brillanti della letteratura americana ha ormai dato il suo addio, con la Nanda che tenta l'impossibile per tirare fuori una parvenza di intervista. Una generazione di “maledetti” che si erano arresi alla vita, quegli scrittori beat. Lei scherzando diceva: “Facevano sesso, si drogavano davanti ai miei occhi. Ma io non ho mai fatto niente, non mi sono mai drogata né ho fatto l'amore con loro. Che stupida che ero”. A lei bastavano i libri e la loro amicizia. Nel 1965 conobbe Bob Dylan: da donna intelligente aveva capito che la nuova letteratura americana si era travasata da sola nella nuova canzone rock. Fu a Berkeley, in uno dei primi concerti in cui l'ex paladino della canzone di protesta indossava i panni del rocker anfetaminico. Berkeley, avamposto della controcultura rivoluzionaria, fu l'unica città americana dove Bob Dylan non venne fischiato dal pubblico per quella che la sinistra ortodossa giudicava una scelta commerciale. Dopo il concerto andò a cena con lui e Ginsberg. Da allora, la Pivano cercò di rivederlo più volte ma con scarsa fortuna. Dylan era ormai inavvicinabile, e lei ci piangeva sopra. Ma continuava a dedicargli affettuose parole. Negli ultimi anni della sua vita, la Nanda era tornata alla ribalta grazie alla sua riscoperta operata da cantautori di casa nostra, magari più in cerca di una sponsorizzazione che di una vera passione e conoscenza della persona. Per tutti gli anni 80 e i primi 90 infatti in Italia nessuno si era più ricordato di lei. Adesso era tutta una corsa per averla addirittura ospite su qualche disco. Probabilmente il ricordo più bello e sincero è quello operato dal regista Luca Facchini nel suo recente film documentario “Fernanda Pivano, a farewell to Beat”,opera in cui era il regista era riuscito a riportare, dopo tanti anni, la Pivano in America, a dare un ultimo saluto alle tombe dei suoi amici americani. Spesso i suoi grandi occhi neri si riempivano di lacrime. Nel sogno pace & amore degli anni 60 lei ci aveva creduto, ma lo aveva visto sfumare nel nulla. Si consolava con l'amicizia di nuovi eroi, come Lou Reed, il rocker newyorchese che negli ultimi anni la andava a trovare spesso. Una volta, tanti anni fa, mi telefonò a casa a mezzanotte, l'ora in cui lei cominciava a lavorare. “Dottor Vites” mi disse. Nessuno mi aveva mai chiamato così. “Ho letto le sue cose. Ma lei cosa vuole che io faccia per lei?”. Nulla, è già tanto che lei abbia letto le mie cose. “Che strano. Lei è il primo che non mi chiede qualcosa in cambio, lo fanno tutti”. Forse perché non le ho mai chiesto nulla che quella notte nacque un'amicizia semplice e bella. Erano tempi, inizio anni 90, che della Nanda si erano dimenticati tutti. Non era ancora scattato quel meccanismo di sponsorizzazione che avrebbe accompagnato i suoi ultimi anni, quando personaggi che non avevano mai avuto nulla a che fare con lei e con il suo mondo facevano a gara per averla sul palco o sui loro libri. Lei era davvero sola in quei giorni, e malata. Andavo nella sua casa in via Senato a Milano, rigorosamente dopo le 8 di sera, una casa grande e buia, piena di pile di libri disordinati ovunque, anche sulle seggiole. Non sapevi mai dove sederti. Una infermiera se ne andava e lei compariva, piegata sul suo bastone. Piangeva, tanto. Nessuno mi cerca più. Mi lasciava frugare nei suoi armadi, tra i libri. Roba da far paura: gli originali del San Francisco Chronicle, libri con dediche di Hemingway. Mi permetteva di prendere quello che volevo, per fotocopiarmeli. Il romanzo autografo mai finito di Neal Cassady. Fossi stato lo stronzo che non sono mai riuscito ad essere avrei potuto sparire con quel ben di dio, farci dei soldi e magari anche una carriera. Dopo andavamo a cena in Corso Venezia, un bel ristorante dove era accolta come una principessa. E finalmente la Nanda sorrideva. Prendeva sempre a fine cena una spremuta di mandarino. Non ci avevo mai pensato. Adesso bevo sempre anche io spremuta di mandarino. L'ultima volta che ci siamo visti è stato tre o - credo - quattro anni fa. Eric Andersen era venuto a Milano a suonare a una presentazione di una nostra rivista. Aveva insistito perché andassimo a trovarla. "Eric non la sento da tempo, so che è molto malata". Alla fine andammo, aveva cambiato abitazione, una coppia di ragazzi molto zen si prendevano cura di lei. Parlammo, ci salutammo, ci tenemmo la mano. I suoi grandi occhi sorridevano come sempre quando c'era uno dei suoi "amici americani". Ieri sera ho chiamato l'amico Jacksie per dirgli che la Nanda se n'era andata. C'era anche lui quell'ultima volta con me ed Eric. Mi ha detto che qualche giorno fa se n'è andato anche Francesco, era il chitarrista di Eric Andersen quando il cantautore si esibiva in Italia. L'avevo conosciuto due anni fa a un loro concerto a Bergamo. Si vedevano i segni della malattia, ma lui diceva di sentirsi bene. Invece è andato anche lui, in questo agosto che farà pure un caldo torrido e bastardo, ma dentro di me sento freddo, con tutti questi amici che se ne vanno. "Care stelle", come ha detto la mia amica Clara. Fossi stato bastardo nella mia vita oggi avrei una carriera. Invece sono sempre il solito sfigato, ma va bene così. Non ho una carriera, ma da ieri sera, ne sono certo, in questo grande meraviglioso cielo blu di agosto c'è una stella in più, e credo anche che, "al sicuro, in cielo" - safe in heaven dead come diceva il suo grande amico Jack Kerouac - ho una preghiera in più assicurata per la mia anima di peccatore. Nessuno mi aveva chiamato Dottor Vites. Nessuno, adesso, lo farà più. Paolo Vites