Meeting/ Day three

15:35 / Pubblicato da Paolo Vites /

Sera tarda, ultima riunione di redazione, occhi che si chiuderebbero volentieri. Il Meeting quasi deserto, il momento migliore per visitarsi un paio di mostre. Cerco quella su Flannery O’Connor, mi imbatto in quella su Solidarnosc. E già, dico mentre entro, questo mese di agosto 2010 sono trent’anni da quei giorni fantastici. Straordinari quei giorni, quegli anni, quelli di Lech Walesa e del più libero sindacato della storia dele lotte operaie. Allora, quell’agosto del 1980, avevo 18 anni. Mentre comincio a guardare le foto di questa mostra, la commozione sbotta fuori prepotente. Le ricordo tutte, quelle foto, sembra ieri. Quei volti, belli, fieri, liberi. Lech Walesa e i suoi baffoni, altro che quelli di Stalin, e la spilletta con la Madonna Nera. Ricordo come discutevamo scioccati alle immagini che arrivavano da Danzica, quei giorni del 1980. Che sta succedendo qui? Operai in ginocchio che si fanno il segno della croce durante lo sciopero invece che sventolare noiose bandiere rosse e alzare il pugno? I tempi stanno cambiando, avrebbe detto qualcuno. Leggendo la dichiarazione di richieste in 21 punti degli operai Solidarnosc, appare evidente l’originalità e la grandezza di questo sindacato. La prima richiesta di aumento salariale arriva verso il decimo punto. Prima solo richieste di libertà: di parola, di religione, di espressione. E dire che questa gente, questi operai polacchi, era gente che letteralmente moriva di fame, nella gloriosa Polonia socialista del fallimento, ideologico ma anche economico. Altro che la rivoluzione dei ragazzi borghesi figli di papà e annoiati del nostro 68: quella polacca di Solidarnosc è stata insieme a quella di Budapet del 56 e a quella di Praga del 68 l’unica vera rivoluzione del Novecento. E guarda un po’, non contro i padroni, ma contro i comunisti. Tutte e tre. Guardo quelle foto, Piazza del Duomo a Milano con l’enorme croce di lumini e migliaia di persone con le bandiere polacche, in quei giorni del dicembre 1981 quando fecero, i comunisti, il colpo di stato. Da Chiavari andavamo in treno per partecipare a quei momenti, partecipi anche noi di quella grande lotta per la libertà. Mentre il mio professore, onest’uomo del PCI, mi diceva che a scuola non bisognava fare politica: perché entravo in classe con la t-shirt con la scritta Solidarnosc. Verrebbe da ridere se non ci fosse da piangere per l'ipocrisia. Alla fine della mostra ci sono le spillette del sindato: altra commozione. Sono dentro una bacheca di vetro, come reliquie. Ne avevo a decine, allora. Vorrei averle tenute. Che ricordi. Formidabili quei giorni, formidabili quegli anni.

2 commenti:

cri on 24 agosto 2010 alle ore 20:16

ma che bello godere di queste righe, del tuo racconto quotidiano... Grazie di cuore! cri

Comment by Unknown on 26 agosto 2010 alle ore 15:46

Ho guardato anch'io la mostra con attenzione e trasudava davvero di coraggio, fierezza e fede. anni di uomini indomabili in anni dominati dal terrore. La mostra sulla pianista che commosse Stalin insieme alle letture di libri come "non dimenticatemi" di Florenskij ci frustano la spina dorsale: bellezza, fierezza, indomabilità, fede.
Forse il mondo di oggi in maniera diversa persegue lo stesso scopo: allora un grigiore che annullava l'io (la vecchia cabina con il telefono grigio muto), adesso una generazione di quarant'enni che non ha nelle vene il sangue del desiderio e coi propri figli gioca alla playstation.
un abbraccio
mario braga

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