È la tarda mattinata del 19 dicembre 2005, sono in redazione, squilla il telefono, è mia moglie Annalena. Mia figlia Lucilla era andata a sciare e la mattina del lunedì si era svegliata dolorante in tutte le ossa. «Sarà influenza». Però è pallida come un cencio. Era seguito il viaggio al pronto soccorso, poi il responso dei medici dell’ospedale pubblico San Gerardo di Monza. «Leucemia grave, signora, molto grave». E più tardi in corsia. «Signora non sappiamo se sopravvive alla prima chemio, forse...». Sono circa le sei del pomeriggio quando mi presento all’ospedale. Lucilla è seduta sul suo lettino, cameretta singola, pallida, avvolta nella sua camicia da notte come in un sudario di morte. Come va, Lalla? «Uno schifo, pa’». Lei che ti biascica altre cose e tu che non pensi ad altro che tua figlia è nelle mani di chissà cosa (scusate, permettetemi di averlo chiamato Dio, lì per lì). «Vedi papà... - e piange - vedi, non me ne frega niente della morte, è che proprio adesso doveva capitare! Proprio adesso che c’è Natale e noi dovevamo stare tutti insieme nella nostra bella famiglia (sì, disse così, Lucilla: “bella”, e io faccio ancora così fatica a crederci!), adesso che dovevo andare in vacanza con i miei amici di Gs! Ma perché Gesù mi fa questo! Non poteva aspettare almeno la fine delle vacanze!?». E poi, stringendo i denti e i pugni, «È un pirla!». Un pirla? Chi è un pirla Luci? «Gesùùùù!!!!!». Be’, dico io, adesso calma. Poi la guardo e so soltanto che le devo una risposta. Neanche un po’, dico. «Neanche un po’ cosa?». Dico che Gesù non è neanche un po’ pirla. «E allora perché mi fa questo? Ti sembra giusto che Gesù faccia queste cose?». Dentro di me dico: so forse qualcosa più di questa bambina, io? No, non so niente, non capisco un accidente, so soltanto che il nemico dice nel corpo di mia figlia: «Presente»! Stai davanti a questa realtà mi dico. Non scappare, non tirare in ballo Dio, né i santi, né la Madonna. Mi viene un primo pensiero mentre affondo lo sguardo dentro gli occhi umidi e il naso colante di mia figlia. Mi viene in mente la fitta che ha dentro mamma Annalena, il suo pianto al telefono, il suo dolore di madre. Senti Lalla, tu sai che io e mamma vorremmo essere al posto tuo, lo sai, vero? «Lo so». Però non possiamo essere al posto tuo. Perciò quello che ti sto dicendo è vero. Ma non è del tutto vero. «Cioè?». Cioè il fatto che io e tua madre vorremmo essere al posto tuo, non è una risposta. La realtà è diversa. Il posto è tuo, e nessuno te lo può togliere. Nessun bene del mondo, neanche quello di tuo padre e di tua madre. «Già, bella scoperta». Avanti, mi dico, rispondi, ti sta spaccando la faccia. E chissà come mi ripassa davanti agli occhi la scena di diciannove anni fa quando una sera Annalena torna a casa, il viso scuro, neanche mi saluta, corre in camera... un lamento soffocato. «Cosa c’è, Annalena?». «C’è che questa figlia morirà, ho la toxoplasmosi». E giù a piangere. Non so che fare se non abbracciarla, stringerla, sussurrarle «Annalena, questa figlia è un dono, la vita non è nostra, fidiamoci». Ecco - dico a Lucilla rivangando quella storia - quella figlia che non doveva nascere sei tu. Invece sei nata, ci sei. Ecco la verità intera: non a noi, ma a un Altro appartiene l’essere. Lucilla rimane silenziosa, poi dice niente, annuisce con la testa, dice il suo «sì, è così». È cambiato qualcosa della sua malattia? Niente. Ma come è cambiata lei, in quel nanosecondo che ha detto il suo «sì» all’evidente! Dalla disperazione più nera, alla determinazione ad andare in guerra. Dalla lamentazione sulle possibilità negate del Natale e della vacanza, al punto di fuga dell’adesione alla realtà così com’è. Da allora non se n’è parlato più, né del Natale perduto, né delle vacanze sfumate. Presenza, solo presenza al presente, combattendo come un leone, disfacendosi nel corpo e sette volte rinascendo più bella di prima, più bella fuori e dentro, anche se in certi momenti avrebbe voluto morire. Come in effetti sarebbe potuta morire, come quel ragazzino della stanza accanto. Ripensandoci, le situazioni più tragiche sono quelle più semplici. Perché si può, si deve, solo accettare. Perché dall’accettare viene l’imparare. Riflettendoci, non è che la nostra pietà e la nostra compassione e il nostro amore siano falsi. È che non completano mai niente, è che per quanto buoni e sensibili e amorevoli e compassionevoli e pietosi possiamo essere, non siamo capaci, direbbe Ibsen, di un solo atto completo di virtù in tutta la nostra vita. Ci vuol niente a insegnare a disperare. Ma insegnare a vivere, questa sì è un’impresa degna anche dell’ultimo malato terminale.
"La mattina che mi dissero: tua figlia ha la leucemia" di Luigi Amicone
14:03
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Pubblicato da
Alessandro
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