Attraverso il suo personale itinerario uno scrittore e giornalista racconta i sogni e le delusioni della generazione del '68 di -John Waters - John Waters è nato a Castlerea, contea di Roscommon, nel 1955. Inizia la carriera di giornalista nel 1981 con “Hot Press”, la più importante rivista di rock'n roll irlandese; alla critica musicale si è aggiunta presto una intensa attività di scrittura su temi di politica, cultura e attualità. Editorialista di “the Irish Time” ha scritto opere per la radio , il teatro e performance di musica e poesia, come The Downing of tha Day”in cui interpreta brani di Patrick Kavanagh accompagnato dalla musica dei Dervish. Recentemente ha inciso con Sinead o'Connor, madre di sua figlia, il cd Baby, let me buy You a Drink” per “Wells for Zoe-Water for life” che finanzia progetti per il reperimento di acqua potabile in Malawi. (.....) Sono nato nel 1955, per cui ho, più o meno, l'età del rock'n' roll. Questo è importante per me, perché sento di aver vissuto in un'epoca in cui stava accadendo qualcosa di coerente, qualcosa con un inizio, una sua metà e , non così lontano nel tempo, una fine , una destinazione fantasma che prometteva la perfetta felicità. L'elemento rock'n' roll non è casuale: dal punto di visto culturale ed ideologico esprime il concetto di libertà approvato dall'umanità occidentale nel corso della mia vita. Il rock'n ' roll ha una sorta di aura di rivoluzione permanente, senza tempo, di sfida a tutto , inclusa la natura stessa. Quarantatre anni fa il gruppo musicale inglese The Who, nel suo inno di rifiuto, cantava “spero di morire prima di diventare vecchio”, trasmettendo la idea di libertà e la mentalità di quell'epoca. La cosa importante era rimanere giovani perché da giovani era possibile evitare di affrontare la questione del significato ultimo. Il problema dell' ”al di là” non si poneva, non solo perché parlando relativamente era lontano, ma anche perché la sua logica si frapponeva fra noi e il raggiungimento della felicità qui ed ora. La giovinezza divenne il centro della cultura che abbiamo creato emergendo dalla rivoluzione degli anni Sessanta. Se ci si potesse autocongelare culturalmente in un determinato momento di tempo , non ci sarebbe bisogno di credere in null'altro che nella propria capacità di essere felici secondo il proprio concetto di felicità. A vent'anni, cinque anni sembravano un' eternità in cui divertirsi ed infrangere tutte le regole imposte dai 'vecchi' per 'ridurre' la libertà. Morire non era tanto andare in un posto migliore, una questione che la cultura rimuoveva, ma risparmiarsi l'umiliazione del decadimento. Lo straordinario è che le generazioni entrate nella sfera pubblica fra la metà degli anni Cinquanta e la fine degli anni Settanta e che oggi controllano le leve del potere nelle nostre società, sono riuscite a perpetuare l'idea del rimanere giovani anche molto tempo dopo la fine della loro giovinezza. Hanno creato una cultura in cui l'essere senza età è fondamentale, sebbene la delusione insita nel carattere di questa aspirazione sia ovvia e inevitabile. Ho fatto parte di queste generazioni, crescendo al centro di questa cultura, profondamente immerso in essa come critico del Rock e come scrittore. Sto cominciando a trovare modi per descrivere in modo autentico questa esperienza,ma non è facile. Perché la cultura era(ed è ) definita dall'etica della 'ribellione' e la morale di tale ribellione era evidente per chiunque vi fosse implicato, è difficile descrivere cosa ho vissuto senza apparire come uno che ha cambiato posizione, che ha tradito l'idea di libertà o , semplicemente, è impazzito. TENTARE DI DESCRIVERE LA REALTA' AL DI FUORI DELLA CAMPANA DI VETRO DELLA CULTURA DOMINANTE SIGNIFICA ASSUMERE LE SEMBIANZE DI UN TRADITORE, DIVENIRE SUBITO REAZIONARIO, il che viene normalmente attribuito alla crisi della mezza età... Potrebbe essere proprio così, ma questa crisi cosa significa se non che il viaggio dell'essere umano su questa terra è definito-fra le altre cose- dalla scoperta graduale del PARADOSSO DEFINITIVO: la mortalità che apre la strada all'eternità? Ora sento che solo di recente ho cominciato a pensare a me stesso per quello che sono veramente e che, fino a poco tempo fa, la cultura dominante cospirava assieme al mio desiderio di rendere razionale il mio sogno di libertà, per impedirmi di parlare della verità su me stesso. Sento che per la maggior parte della mia vita questa 'cultura' è riuscita a bloccarmi o a dissuadermi dal percepire me stesso in maniera autentica. Poiché abbiamo creato una cultura che resta giovane anche se noi invecchiamo, una cultura che istilla in ognuno di noi un senso di alienazione a cui rispondiamo o ritirandoci nella vita privata o oppure stando al gioco e cercando di non perdere la presa della giovinezza più a lungo possibile. Questa 'cultura' nasconde un significato centrale ma nega di farlo. In tutto il suo sproloquiare di promesse non riesce a suggerire una meta ultima, ma, al contempo, sostiene la sua esistenza! (...) In quarant'anni una cultura formatasi in duemila anni è stata ridotta a una cultura in cui la speranza è definita solo dalla prospettiva di qualcosa in più rispetto a ciò che già non è riuscita a fare. La cultura ci dice con insistenza che se abbiamo vissuto solo di chiacchiere e di sensazioni e non siamo soddisfatti è SOLO perché abbiamo fatto le cose in modo sbagliato. Non abbiamo indossato la paccottiglia che essa ci forniva nel modo giusto oppure non ci siamo esercitati abbastanza a vivere appieno le EMOZIONI. E' una questione di 'tecnica' o forse di scarsi 'aiuti chimici'. (...) Poiché le nostre società sono governate da questi malintesi sulla libertà, noi temiamo che se le nostre illusioni venissero messe a nudo non avremmo più nulla per cui vivere, e quindi rifiutiamo di guardare all'orizzonte assoluto della realtà che nelle nostre realtà non è giunto a significare altro che l'orlo dell'abisso, a cui dare occasionalmente una sbirciata con la coda dell'occhio:quando di tanto in tanto, al funerale di un amico o davanti allo sfogo di disperazione di un altro, ci troviamo faccia a faccia con la realtà e distogliamo lo sguardo con sconcerto. In questa cultura la fede è condannata ad avere la funzione di 'consolazione' per quanti 'non sono all'altezza'. In effetti le nostre società vengono costruite per celare allo sguardo la possibilità della coscienza di una dimensione infinita, eterna, assoluta: riceviamo un nuovo 'soffitto' che crea l'illusione che gli esseri umani possano funzionare entro uno spazio autodefinito e persino autocreato! (...) Data la natura superficiale dell'esperienza educativa cristiana da parte delle nostre società , e , dato che la dottrina cattolica ha evidenziato la 'morale' rispetto ad altri aspetti della proposta cristiana, oggi tutti i riferimenti a Cristo tendono ad essere letti nelle nostre culture come banali ammonimenti contro la perdita del Suo amore a causa del peccato:l'idea che nel perdere il contatto con Cristo perdiamo qualcosa di fondamentale per la nostra natura umana, semplicemente non viene espressa... Può anche essere presente nell'intenzione di chi comunica, ma nella nebbia della cultura non si comunica”. (...)
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2 commenti:
God bless you John, maestro ed amico. Grazie
un modo di guardare la vita così realista e così sincero! mi ha ribaltato le carte in tavola quando l'ho letto, spero di non rimetterle più a posto.
È più bello e umano vedere con questa prospettiva.
Grazie Ale
keep rockin'
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