Domenica, Benedetto XVI ha battezzato dei bambini. «Ne sono veramente contento», ha detto, con una semplicità che si è fatta, nell'austerità della Sistina, linguaggio familiare. E felici erano quelle madri, quei padri, che si vedevano battezzato dal Papa il proprio figlio: l'eco di quella gioia l'avevano scritto sulla faccia, e negli sguardi commossi e umanamente orgogliosi, fissi sul 'loro' bambino.
Ma a queste madri, e padri, e a tutti gli altri padri e madri, Benedetto XVI ha detto una cosa importante, anzi fondamentale: «Il bambino non è proprietà dei genitori, ma è affidato dal Creatore alla loro responsabilità, liberamente e in modo sempre nuovo, affinché essi lo aiutino ad essere un libero figlio di Dio». Questi figli, ha detto dunque il Papa, non sono 'vostri'. Affermazione non nuova, eppure per niente scontata in un tempo in cui di figli se ne hanno pochi, e su quei pochi, o quell'unico, si concentrano aspettative, e possesso. Provate a immaginare di dire a una coppia in contemplazione estatica del proprio primogenito davanti alla nursery di un ospedale: questo figlio, non vi appartiene. Come, non ci appartiene? – obietterebbero in molti. Ma se ci somiglia così tanto, anzi, è identico a suo padre; ma se l'abbiamo voluto, e anzi programmato, e lo chiameremo come il nostro calciatore preferito – che bello, se gli somigliasse. Cosa significa, che questo figlio non è 'nostro'? Significa appunto che è di un altro, dice il Papa, fedele alla più antica tradizione cristiana: «Il battesimo è questo: restituiamo a Dio ciò che da Lui è venuto». Ciò che non ci può appartenere, in quanto non l'abbiamo fatto noi. E questo lo sanno più istintivamente le donne, o almeno quelle non totalmente distratte. Che quando sono incinte, e quando poi avvertono in sé i primi movimenti del bambino, hanno un istante di naturale stupore, al manifestarsi di quella vita spuntata da due infinitesimali cellule. E spesso, se si fermano a pensare, tremano: si sta formando il suo cervello, il suo cuore, e io non so neppure lontanamente come. La coscienza di questa abissale inadeguatezza oggi si declina facilmente in un'ansia: superesami, supercontrolli, ecografie continue a spiare, sospettose di 'difetti', il buio uterino. È il principio del possesso: 'nostro figlio', deve essere perfetto. È la propria pretesa sullo sconosciuto misteriosamente in arrivo. E d'altra parte, come liberarsi dalla paura, se nessuna scienza può davvero garantirci la piena salute di un figlio? La risposta per i cristiani sta proprio nella certezza che i figli appartengono a Dio. Che chi li ha suscitati dal nulla ne è il vero padre, colui che prima che la madre li concepisse già li conosceva, come dice un salmo. Un Dio padre che trae i suoi figli dentro un disegno buono, anche nella più estrema drammaticità. Questo 'altro' padre tacitamente presente è il punto di equilibrio fra la possessività viscerale che fa dei figli cose proprie, e l'abbandono alle pure istintive inclinazioni di quei figli cresciuti – in molti da trent'anni a questa parte – come senza alcun padre. Tra questi due estremi, di cui oggi vediamo ogni giorno esempi che smarriscono nelle cronache dei giornali, il Papa ricorda una antica terza via: «affidare i figli alla bontà di Dio», e insegnare loro a chiamarlo Padre. Come un allargarsi del cielo sulle nostre preoccupazioni: cosa farà, dove andrà, chi diventerà.
Come nelle parole di quel contadino di Charles Peguy, disperato perché i suoi bambini erano malati: che decide affidarli, anzi di metterli fra le braccia della Madonna, perché in realtà sono figli 'suoi'. E se ne va poi sgravato da una troppo grande angoscia: comunque certo ora, per quei figli, di un destino buono.
Marina C.
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