Cosa resta degli uomini che vissero tra queste mura? Che è lo stesso che chiedersi cosa sarà di noi. C'è un tarlo che rode oggi quassù. È il dubbio del nulla. Lo stesso che porta a far morire una ragazza in coma da troppi anni. Marina Corradi (da TEMPI) Siamo andati al Castello Sforzesco domenica, a fare il giro delle merlate. Ci hanno portati su per antiche scale, in alto, fino ai tetti e ai camminamenti da cui si vede Milano, sotto, che s'allarga grigia. Era una giornata fredda e bellissima, il cielo di un blu assoluto, spietato. In quella limpidezza la città stava scoperta, impudica come una donna non giovane e non bella sorpresa nuda, della sua bruttezza imbarazzata. L'orizzonte però era chiaro talmente, che si vedevano le montagne, e netta anche ogni spaccatura delle rocce. Tutto così nitido in quell'aria tersa, che ogni cosa fra le case e il cielo sembrava tagliata da una lama affilata, quasi crudele. Su per i camminamenti, dietro ai merli ghibellini nella penombra dei tetti di travi, i passi dei visitatori erano l'unico suono, insieme al frullio d'ali dei piccioni. Così vicina e così lontana Milano: il Pirelli, il Duomo, la torre Velasca erti sulla distesa di case, come di guardia. E tu a cercare laggiù in mezzo con lo sguardo, là sei nata, là sei andata a scuola, lì sono nati i tuoi figli. La tua vita dentro a questo perimetro tra le vie di Milano, intersecata a milioni di altri sconosciuti destini. E il sole è splendido, il Castello bellissimo, ma qualcosa in tutta questa bellezza duole. Queste stanze con le loro mura poderose e le torri, e le feritoie a spiare l'avvicinarsi dei nemici, e le ripide scale, testimoniano: uomini hanno vissuto qui in un tempo remoto, tali e quali a noi, e bambini, che per questi antri si rincorrevano a perdifiato, su, fino alla sala dei falconi del duca, dove gli uccelli prigionieri anelavano il cielo. Dormivano stretti vicini al camino acceso, mentre nella notte la fiamma si spegneva, e in una giornata come questa fremevano per la primavera in arrivo. Ma cosa resta di loro? Qualche lapide, e, dei principi, un ritratto che sotto il tempo scurisce. Dal basso sale la musica delle giostre, nel parco; e sembra quella di perdute fiere e feste, come quando Beatrice d'Este arrivò in sposa al duca di Milano. Che ne è stato, e dove sono ora tutti? (Che è la stessa cosa che chiedersi cosa sarà di noi, e dei nostri figli). Quello che duole in questo pomeriggio splendente è un tarlo educato, che rode piano. È il dubbio del nulla. Lo stesso in fondo che porta a far morire una ragazza in coma da troppi anni. Un dubbio che intacca anche chi crede, va in chiesa e cerca d'essere cristiano. La mia vita? L'arco d'anni fra un'alba alla Mangiagalli, quel liceo, quella casa e la pace del Monumentale. Proprio come i principi e i soldati e i bambini che camminavano nelle corti del Castello, e di cui non resta niente sotto al blu ardente di una domenica di vento. Che cos'è? Smemoratezza, o un danno ereditato nel sangue con la tua generazione? «Ora è vero, ma è stato così a lungo falso che ancora oggi sembra impossibile», dice una poesia di Jimenez «È vero, è tutto vero», ti ripeti guardando dall'alto Milano; ma quanto dolorosamente l'altra vita promessa ti sembra impossibile.
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